antonio pigafetta libro pdf

Relazione del primo viaggio intorno al mondo

Notizie del Mondo nuovo con le figure dei paesi scoperti

descritti da ANTONIO PIGAFETTA, vicentino, cavaliere di Rodi

ANTONIO PIGAFETTA PATRIZIO VICENTINO E CAVALIER DE RODI A L’ILLUSTRISSIMO ED
ECCELLENTISSIMO SIGNOR FILIPPO DE VILLERS LISLEADAM, INCLITO GRAN MAISTRO DI
RODI, SIGNOR SUO OSSERVANDISSIMO.

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Antonio Pigafetta chi era https://it.wikipedia.org/wiki/Antonio_Pigafetta
Storia del libro https://it.wikipedia.org/wiki/Relazione_del_primo_viaggio_intorno_al_mondo

Perchè sono molti curiosi, illustrissimo ed eccellentissimo signor, che non solamente se contentano
de sapere e intendere le grandi ed ammirabili cose che Dio me ha concesso di vedere e patire ne la
infrascritta mia longa e pericolosa navigazione, ma ancora vogliono sapere li mezzi e modi e vie che ho
tenuto ad andarvi, non prestando quella integra fede a l’esito se prima non hanno bona certezza de l’inizio;
pertanto saperà vostra illustrissima signoria, che, ritrovandomi nell’anno della natività del Nostro
Salvatore 1519 in Spagna, in la corte del serenissimo re dei Romani con el reverendo monsignor
Francesco Chieregato, allora protonotario apostolico e oratore de la santa memoria di papa Leone X, che
per sua virtù dappoi è asceso a l’episcopato de Aprutino e principato de Teramo, avendo io avuto gran
notizia per molti libri letti e per diverse persone, che praticavano con sua signoria, de le grandi e stupende
cose del mare Oceano, deliberai, con bona grazia de la maestà cesarea e del prefato signor mio, far
esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e
potessero partorirme qualche nome appresso la posterità.
Avendo inteso che allora se era preparata una armata in la città di Siviglia, che era de cinque nave,
per andare a scoprire la spezieria nelle isole di Maluco, de la quale era capitanio generale Fernando de
Magaglianes, gentiluomo portoghese, ed era commendatore di Santo Jacobo de la Spada, [che] più volte
con molte sue laudi aveva peregrato in diverse guise lo Mar Oceano, mi partii con molte lettere di favore
da la città de Barsalonna dove allora resideva sua maestà, e sopra una nave passai sino Malega, onde,
pigliando il cammino per terra, giunsi a Siviglia; ed ivi, essendo stato ben circa tre mesi, aspettando che la
detta armata si ponesse in ordine per la partita, finalmente, come qui de sotto intenderà Vostra
eccellentissima signoria, con felicissimi auspizî incomensiammo la nostra navigazione: e perchè ne l’esser
mio in Italia, quando andava a la santità de papa Clemente, quella per sua grazia a Monteroso verso di me
si dimostrò assai benigna e umana e dissemi che li sarebbe grato li copiassi tutte quelle cose [che] aveva
viste e passate nella navigazione, benchè io ne abbia avuta poca comodità, niente di meno, secondo il mio
debil potere, li ho voluto satisfare.
E così li offerisco in questo mio libretto tutte le vigilie, fatiche e peregrinazioni mie, pregandola,
quando la vacherà dalle assidue cure rodiane, si degni trascorrerle; per il che mi parerà esser non poco
rimunerato da vostra illustrissima signoria, a la cui bona grazia mi dono e raccomando.
Avendo deliberato il capitano generale di fare così longa navigazione per lo mare Oceano, dove
sempre sono impetuosi venti e fortune grandi, e non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che
voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa, como fece con
l’aiuto di Dio, (li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perchè, se non
perchè era Portughese ed essi Spagnoli), volendo dar fine a questo che promise con giuramento a lo
imperatore don Carlo re di Spagna, acciò le navi ne le fortune e ne la notte non se separaseno una da
l’altra, ordinò questo ordine e lo dette a tutti li piloti e maestri de le sue navi: lo qual era:
Lui de notte sempre voleva andar innanzi de le altre navi ed elle seguitasseno la sua con una facella
grande di legno, che la chiamano farol [il] quale portava sempre pendente da la poppa la sua nave. Questo
segnale era a ciò [che] continuo lo seguitasseno. Se faceva uno altro fuoco con una lanterna o con un
pezzo de corda de giunco, che la chiamano strengue, di sparto molto battuto ne l’acqua e poi seccato al
sole ovvero al fumo, ottimo per simil cosa, gli rispondesseno, acciò sapesse per questo segnale che tutte
venivano insieme. Se faceva dui fuochi senza lo farol, virasseno, o voltasseno in altra banda quando el
vento non era buono e al proposito per andar al nostro cammino, o quando voleva far poco viaggio. Se
faceva tre fuochi, tollesseno via la bonetta, che è una parte di vela che se attacca da basso de la vela
maggiore, quando fa bon tempo, per andar più: la se tol via acciò sia più facile a raccogliere la vela
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maggiore, quando si ammaina in pressa in un tempo subito. Se faceva quattro fuochi, ammainassero tutte
le vele, facendo poi lui uno segnale di fuoco come stava fermo. Se faceva più fuochi, ovvero tirava alcuna
bombarda, fosse segnale de terra o de bassi. Poi faceva quattro fuochi, quando voleva far alzare le vele in
alto, acciò loro navigassero seguendo sempre per quella facella de poppa. Quando voleva far mettere la
bonetta, faceva tre fuochi: quando voleva voltare in altra parte [ne] faceva due. Volendo poi sapere se
tutte le navi lo seguitavano e venivano insieme, [ne] faceva uno, perchè così ogni nave facesse e gli
rispondesse.
Ogni notte se faceva tre guardie: la prima nel principio de la notte, la seconda, che la chiamano
modoro nel mezzo, la terza nel fine [della notte]. Tutta la gente de la nave se (s)partiva in tre colonelli; il
primo era del capitano, ovvero del contro maistro, mutandose ogni notte; lo secondo del pilota o
nocchiero, il terzo del maestro.
Luni a 10 agosto, giorno de santo Laurenzio, ne l’anno già detto, essendo la armata fornita di tutte le
cose necessarie per mare e d’ogni sorte de gente (era[va]mo duecento e trentasette uomini) ne la mattina si
feceno presti per partirse dal molo di Siviglia, e tirando artigliaria detteno il trinchetto al vento; e vennero
abbasso del fiume Betis, al presente detto Gadalcavir, passando per uno luogo detto Gioan Dalfarax, che
era già grande abitazione de Mori, per mezzo lo quale stava un ponte che pasava el ditto fiume per andare
a Siviglia, del che è restato fin al presente nel fondo dell’acqua due colonne, che quando passano le navi
hanno bisogno de uomini che sappiano ben lo loco delle colonne, perciò non desseno in esse, ed è bisogno
passarle quando el fiume sta piú crescente, ed anche per molti altri luoghi del fiume, che non ha tanto
fondo che basti per passare le navi cargate e [è bisogno che] quelle non siano troppo grandi. Poi venirono
ad un altro [luogo], che se chiama Coria, passando per molti altri villaggi a lungo del fiume, tanto che
giunseno ad uno castello del duca di Medina Cidonia, il quale se chiama S. Lucar, che è posto per entrare
nel mare Oceano, levante ponente con il capo di Sant Vincent, che sta in 37 gradi di latitudine e lungi dal
detto posto 10 leghe. Da Siviglia fin a qui per lo fiume gli sono 17 o 20 leghe. Da lì alquanti giorni venne
el capitano generale con li altri capitani per lo fiume abbasso ne li battelli de le navi et ivi stessimo molti
giorni per fornire l’armata di alcune cose [che] le mancavano; e ogni dí andavamo in terra ad aldir messa
ad un loco che se chiama Nostra Donna di Baremeda, circa San Lucar. E avanti la partita lo capitano
general volse [che] tutti se confessasseno e non consentitte [che] ninguna donna venisse ne l’armada per
meglior rispetto.
Marti a XX de settembre, nel medesimo anno, ne partissemo da questo loco, chiamato San Lucar,
pigliando la via di garbin, e a 26 del detto mese arrivassemo a una isola de la Gran Canaria, che se dice
Tenerife in 28 gradi di latitudine, per pigliar carne, acqua e legna. Stessemo ivi tre giorni e mezzo per
fornire l’armata delle dette cose: poi andassemo a uno porto de la medesima isola, detto Monte Rosso, per
pegola, tardando due giorni. Saperà Vostra illustrissima signoria che in quelle isole de la Gran Canaria c’è
una in tra le altre, ne la quale non si trova pur una goccia de acqua che nasca, se non [che] nel mezodí [si
vede] discendere una nebola dal cielo e circonda uno grande arbore che è nella detta isola, stillando dalle
sue foglie e rami molta acqua; e al piede del detto arbore è addrizzata in guisa de fontana una fossa, ove
casca l’acqua, de la quale li uomini abitanti e animali, cosí domestici come salvatici, ogni giorno de questa
acqua e non de altra abbondantissimamente se saturano.
Luni a tre d’ottobre a mezzanotte se dette le vele al cammino de l’austro, ingolfandose nel mare
Oceano, passando tra Capo Verde e le sue isole in 14 gradi e mezzo; e cosí molti giorni navigassimo per
la costa della Ghinea, ovvero Etiopia, (ne la quale ha una montagna, detta Sierra Leone, in 8 gradi di
latitudine) con venti contrari, calme e piogge senza venti fino a la linea equinoziale, piovendo sessanta
giorni di continuo contra la opinione de li antichi. Innanzi che giungessimo a la linea, 14 gradi, molte
gropade da venti impetuosi e correnti de acqua ne assaltarono contra el viaggio. Non possendo spuntare
innanzi, a ciò che le navi non pericolasseno, se calavano tutte le vele: ed a questa sorte andavano de mare
in traverso finchè passava la gropada, perché veniva molto furiosa. Quando pioveva non era vento;
quando faceva sole era bonaccia. Venivano al bordo de la nave certi pesci grandi, che se chiamano
tiburoni, che hanno denti terribili e se trovano uomini nel mare li mangiano. Pigliavamo molti con ami de
ferro, benché non sono buoni da mangiare, se non li piccoli, e anche loro mal boni.
In queste fortune molte volte ne apparse il Corpo Santo, cioè Santo Elmo, in lume fra le altre in una
oscurissima notte, di tal splendore, come è una facella ardente, in cima de la maggiore gabbia, e stiè circa
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due ore e piú con noi, consolandone che piangevamo. Quando questa benedetta luce si volse partire da
noi, tanto grandissimo splendore dette ne li occhi nostri, che stettemo piú de mezzo quarto de ora tutti
ciechi, chiamando misericordia, e veramente credendo esser morti. Il mare subito se aquietò.
Vidi molte sorte di uccelli, tra le quali una che non aveva culo; un’altra, quando la femina vuol far li
ovi, li fa sopra la schiena del maschio, e ivi si creano; non hanno piedi e sempre vivono nel mare; un’altra
sorte, che vivono del sterco de li altri uccelli e non di altro: sí come vidi molte volte questo uccello, qual
chiamano cagassela, correr dietro ad altri uccelli, fin tanto [che] quelli sono costretti mandar fuora el
sterco; subito lo piglia e lascia andare lo uccello. Ancora vidi molti pesci che volavano, e molti altri
congregati insieme, che parevano una isola. Passato che avessimo la linea equinoziale, in verso el
meridiano, perdessimo la tramontana, e cosí se navigò tra il mezzogiorno e il garbin fino in una terra, che
si dice la terra del Verzin in 23 gradi 1/2 al polo antartico, che è terra del capo de Santo Agostino, che sta
in 8 gradi al medesimo polo: dove pigliassemo gran rinfresco de galline, batate, pigne molto dolci, frutto
in vero piú gentil che sia, carne de anta come vacca, canne dolci ed altre cose infinite, che lascio per non
essere prolisso. Per un amo da pescare o uno cortello davano 5, o 6 galline: per uno pettine uno paro de
occati; per uno specchio o una forbice, tanto pesce che avrebbe bastato a X uomini; per uno sonaglio o
una stringa, uno cesto de batate; queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi; e per
uno re de danari, che è una carta da giocare, ne detteno 6 galline e pensavano ancora averne ingannati.
Intrassemo in questo porto il giorno del Sancta Lucia e in quel dì avessimo il sole per zenit e patissimo più
caldo quel giorno e li altri, quando avevamo il sole per zenit, che quando éramo sotto la linea equinoziale.
Questa terra del Verzin è abbondantissima e più grande che la Spagna, Franza e Italia tutte insieme:
è del re de Portugallo. Li popoli di questa terra non sono Cristiani e non adorano cosa alcuna; vivono
secondo lo uso della natura e vivono centovincinque anni e cento quaranta; vanno nudi cosí uomini, come
femmine; abitano in certe case lunghe che le chiamano boii e dormono in rete de bambaso, chiamate
amache, legate ne le medesime case da un capo e da l’altro a legni grossi: fanno foco in fra essi in terra. In
ognuno di questi boii stanno cento uomini con le sue mogli e figlioli facendo gran rumore. Hanno barche
d’uno solo albero, ma schize chiamate canoe, (s)cavate con menare di pietra. Questi popoli adoperano le
pietre, come noi il ferro, per non aver(n)e. Stanno trenta e quaranta uomini in una di queste; vogano con
pale come da forno e cosí negri, nudi e tosi assomigliano quando vogano a quelli della Stige palude.
Sono disposti uomini e femmine come noi; mangiano carne umana de li suoi nemici, non per buona,
ma per una certa usanza. Di questa usanza, lo uno con l’altro, fu principio una vecchia, la quale aveva
solamente uno figliuolo, che fu ammazzato da li suoi nemici, per il che, passati alcuni giorni, li suoi
pigliarono uno de la compagnia che aveva morto [il] suo figliuolo e lo condussero dove stava questa
vecchia. Ella, vedendo e ricordandose del suo figliuolo, come cagna arrabbiata, li corse addosso e lo
mordette in una spalla. Costui de lì a poco fuggì ne li suoi e disse come lo volsero mangiare, mostrandoli
el segnale de la spalla. Quando questi pigliarono poi di quelli, li mangiarono, e quelli de questi; sí che per
questo è venuta tale usanza. Non se mangiano subito; ma ogni uno taglia uno pezzo e lo porta in casa,
mettendolo al fumo; poi ogni 8 giorni taglia uno pezzetto, mangiandolo brustolato con le altre cose per
memoria degli sui nemici. Questo me disse Ioanne Carvagio piloto, che veniva con noi, il quale era stato
in questa terra quattro anni.
Questa gente si dipingono meravigliosamente tutto il corpo e il volto con fuoco in diverse maniere;
anche le donne; sono tosi e senza barba, perchè se la pelano. Se vestono de vestiture de piume di
pappagallo, con rode grandi al culo de le penne maggiori, cosa ridicola. Quasi tutti li uomini, eccetto le
femmine e fanciulli, hanno tre busi nel labbro de sotto, ove portano pietre rotonde e longhe uno dito, e piú
e meno di fuora pendente. Non sono del tutto negri, ma olivastri; portano descoperte le parte vergognose;
el suo corpo è senza peli, e cosí omini qual donne sempre vanno nudi. Il suo re è chiamato cacich. Hanno
infinitissimi pappagalli e ne dànno 8, o 10 per uno specchio; e gatti maimoni piccoli; fatti come leoni, ma
gialli, cosa bellissima. Fanno pane rotondo bianco de midolla de arbore, non molto buono, che nasce fra
l’arbore e la scorza ed è come ricotta: hanno porci che sopra la schiena tenono il loro ombelico, e uccelli
grandi che hanno el becco come uno cucchiaro, senza lingua.
Ne davano per una accetta o coltello grande una o due delle loro figliole per schiave; ma [le] sue
mogliere non dariano per cosa alcuna. Elle non farebbero vergogna a’ suoi mariti per ogni gran cosa, come
ne è stato riferito. Di giorno non consentono a li loro mariti, ma solamente di notte. Esse lavorano e
portano tutto el mangiare da li monti in zerli, ovvero canestri sul capo o attaccati al capo; però essendo
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sempre seco [i] suoi mariti solamente con un arco de verzin o de palma negra e uno mazzo di frezze de
canna: e questo fanno perchè sono gelosi. Le femmine portano [i] sui figlioli (at)taccati al collo in una rete
da bambaso. Lascio altre cose per non esser più lungo.
Si disse due volte messa in terra per il che questi stavano con tanta contrizione in ginocchioni,
alzando le mani giunte, che era grandissimo piacere vederli. Edificarono una casa per noi, pensando
dovessimo star seco alcun tempo, e tagliarono molto verzin per darnelo a la nostra partita. Era stato forse
due mesi [che] non aveva piovesto in questa terra; e quando giongessemo al porto, per caso piovette. Per
questo dicevano noi venire dal cielo e avere menato nosco la pioggia. Questi popoli facilmente se
converterebbono a la fede di Gesù Cristo. Imprima costoro pensavano [che] li battelli fosseno figlioli de le
navi e che elli li partorisseno quando se buttavano fora de nave in mare; e stando così al costado, come è
usanza, credevano [che] le navi li nutrissero.
Una giovane bella venne un dì nella nave capitania, dove io stava, non per altro se non per trovare
alcuno recapito. Stando così aspettando, buttò lo occhio sopra la camera del maestro, e vide uno chiodo
longo piú de un dito, il che pigliando, con grande gentilezza e galanteria se lo ficcò a parte a parte de li
labbri della sua natura; e subito bassa bassa se partitte, vedendo questo il capitano generale e io.
ALCUNI VOCABOLI DE QUESTI POPOLI DEL VERZIN
Al miglio = maiz.
Alla farina = hui.
All’amo = pinda.
Al coltello = tacse.
Al pettine = chigap.
Alla forbice = pirame.
Al sonaglio = itanmaraca.
Buono più che buono = tum maragatum.
Stessimo 13 giorni in questa terra. Seguendo poi il nostro cammino andassemo fino a 34 gradi
e uno terzo al polo Antartico, dove trovassemo, in uno fiume de acqua dolce, uomini che se
chiamano Canibali e mangiano la carne umana. Venne uno de la statura quasi come uno gigante
nella nave capitania per assicurare li altri suoi. Aveva una voce simile a uno toro. Intanto che questo
stette ne la nave, li altri portorono via le sue robe dal loco dove abitavano, dentro de la terra, per
paura de noi. Vedendo questo, saltassimo in terra cento uomini per avere lingua e parlare seco,
ovvero per forza pigliarne alcuno. Fuggitteno, e fuggendo facevano tanto gran passo che noi
saltando non potevamo avanzare li sui passi. In questo fiume stanno sette isole. Ne la maggior de
queste se trova pietre preziose, che si chiama Capo de Santa Maria.
Già se pensava che da qui se passasse al mare de Sur, cioè mezzodì, nè mai più oltre fu
discoverto. Adesso non è capo, se non fiume e ha larga la bocca 17 leghe. Altre volte in questo
fiume fu mangiato da questi Canibali, per troppo fidarse, uno capitano spagnolo, che se chiamava
Iohan de Solís e sessanta uomini, che andavano a discoprire terra come noi.
Poi seguendo el medesimo cammino verso el polo Antartico, accosto da terra, venissemo a
dare in due isole piene di occati e lupi marini. Veramente non se poría narrare il gran numero de
questi occati. In una ora cargassimo le cinque navi. Questi occati sono negri e hanno tutte le penne
ad uno modo, così nel corpo come nelle ali: non volano e vivono de pesce. Erano tanto grassi che
non bisognava pelarli ma scorticarli. Hanno lo becco como uno corvo. Questi lupi marini sono de
diversi colori e grossi come vitelli e il capo come loro, con le orecchie piccole e tonde e denti
grandi. Non hanno gambe, se non piedi tacadi al corpo, simili a le nostre mani, con unghie piccole e
fra li diti hanno quella pelle [che hanno] le oche. Sarebbero ferocissimi se potessero correre: nodano
e vivono de pesce. Qui ebbeno le navi grandissima fortuna, per il che ne apparsero molte volte li tre
Corpi Santi, cioè Sant’Elmo, Sancto Nicolò e Santa Chiara; e subito cessava la fortuna.
Partendo de qui arrivassemo fino a 49 gradi a l’Antartico. Essendo l’inverno le navi intrarono
in uno bon porto per invernarse. Quivi stessemo dui mesi senza vedere persona alcuna. Un dì a
l’improvviso vedessemo un uomo, de statura de gigante, che stava nudo ne la riva del porto,
ballando, cantando e buttandose polvere sovra la testa. Il capitano generale mandò uno de li nostri a
lui, acciò facesse li medesimi atti in segno di pace, e, fatti, lo condusse in una isoletta dinanzi il
capitano generale. Quando fu nella sua e nostra presenzia, molto se meravigliò e faceva segni con
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un dito alzato, credendo venissemo dal cielo. Questo era tanto grande che li davamo alla cintura e
ben disposto: aveva la faccia grande e dipinta intorno de rosso e intorno li occhi de giallo, con due
cuori dipinti in mezzo delle galte. Li pochi capelli che aveva erano tinti de bianco: era vestito de
pelle de animale coside sottilmente insieme; el quale animale ha el capo et orecchie grande come
una mula, il collo e il corpo come uno camello, le gambe di cervo e la coda de cavallo; e nitrisce
come lui: ce ne sono assaissimi in questa terra. Aveva alli piedi albarghe de la medesima pelle, che
coprono li piedi a uso de scarpe, e nella mano uno arco curto e grosso, la corda alquanto piú grossa
di quella del liúto, fatta de le budelle del medesimo animale, con uno mazzo de frecce de canne non
molto longhe, impennate come le nostre. Per ferro, ponte de pietra de fuoco bianca e negra, a modo
de frezze turchesche, facendole con un’altra pietra.
Lo capitano generale li fece dare da mangiare e bere, e, fra le altre cose che li mostrette, li
mostrò uno specchio grande de azalle. Quando el vide sua figura, grandemente se spaventò, e saltò
in dietro e buttò tre o quattro de li nostri uomini per terra. Da poi gli dette sonagli, uno specchio,
uno pettine e certi paternostri e mandollo in terra con 4 uomini armati. Uno suo compagno, che mai
volse venire a le navi, quando el vide venire costui con li nostri, corse dove stavano gli altri; se
misseno in fila tutti nudi.
Arrivando li nostri ad essi, comensorono a ballare e cantare, levando un dito al cielo e
mostrandoli polvere bianca de radice da erba, poste in pignatte di terra, che la mangiasseno, perchè
non avevano altra cosa. Li nostri li fecero segno [che] dovesseno venire a le navi e che li
aiuterebbono [a] portare le sue robe, per il che questi uomini subito pigliarono solamente li suoi
archi; e le sue femmine, cargate come asine, portarono il tutto.
Queste [donne] non sono tanto grandi, ma molto più grosse. Quando le vedessimo,
grandemente stessemo stupefatti. Hanno le tette longhe mezzo braccio; sono dipinte e vestite come
[i] loro mariti, se non [che] dinnanzi a la natura hanno una pellesina che la copre. Menavano quattro
de questi animali piccoli, legati con legami a modo de cavezza. Questa gente, quando voleno
pigliare di questi animali, legano uno di questi piccoli a uno spino; poi véneno li grandi per giocare
con li piccoli; ed essi, stando ascosi, li ammazzano con le frezze. Li nostri ne condussero a le navi
disdotto tra maschi e femmine, e furono ripartite a le due parti del porto acciò pigliasseno de li detti
animali.
Di lì a 6 giorni fu visto uno gigante, depinto e vestito de la medesima sorte, da alcuni che
facevano legna. Aveva in mano un arco e frezze. Accostandosi a li nostri, prima se toccava el capo,
el volto e el corpo, e il simile faceva a li nostri, e dappoi levava le mani al cielo. Quando el capitano
generale lo seppe, lo mandò a torre con lo schifo e menollo in quella isola che era nel porto, dove
avevano fatta una casa per li fabbri e per metterli alcune cose de le nave. Costui era piú grande e
meglio disposto de li altri e tanto trattabile e grazioso. Saltando ballava e, quando ballava, ogni volta
cacciava li piedi sotto terra un palmo. Stette molti giorni con noi, tanto che ‘l battizzassemo,
chiamandolo Giovanni. Costui chiaro pronunziava Gesú, Pater Noster, Ave Maria e Giovanni come
noi, se non con voce grossissima. Poi el capitano generale li donò una camisa, una camisotta di
panno, braghesse di panno, un bonet, un specchio, uno pettine, sonagli e altre cose e mandollo da li
sui. Ghe li andò molto allegro e contento. Il giorno seguente costui portò uno di quelli animali
grandi al capitano generale, per il che li dette molte cose acciò ne portasse de li altri: ma piú nol
vedessimo. Pensassimo [che] li suoi lo avessero ammazzato per aver conversato con noi.
Passati 15 giorni, vedessemo quattro de questi giganti senza le sue armi, perchè le avevano
ascose in certi spini: poi li due che pigliassemo ne le insegnarono. Ognuno era dipinto
differenziatamente. Il capitano generale ritenne due, li più giovani e piú disposti, con grande astuzia,
per condurli in Ispagna. Se altramente avesse fatto, facilmente avrebbeno morto alcun de noi.
L’astuzia che usò in ritenerli fu questa: ghe dette molti cortelli, forbice, specchi, sonagli e cristallino.
Avendo questi due le mani piene de le dette cose, il capitano generale fece portare due para de ferri,
che se mettono a li piedi, mostrando de donarli, e elli, per esser ferro, gli piacevano molto, ma non
sapevano come portarli e li rincresceva lassarli: non avevano dove mettere quella merce e
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bisogniavali tenersi con le mani la pelle che avevano intorno. Li altri due volevano aiutarli, ma il
capitano non volse. Vedendo che li rincresceva lasciare quelli ferri, li fece segno [che] li farebbe
[mettere] a li piedi e quelli porterebbeno via. Essi risposero con la testa di sì. Subito ad uno
medesimo tempo li fece mettere a tutti due, e quando l’inchia(va)vano con lo ferro che traversa,
dubitavano; ma [as]securandoli il capitano, pur stetteno fermi; avvedendosene poi de l’inganno,
sbuffavano come tori, chiamando fortemente Setebos, che li aiutasse. Agli altri due, appena
potessemo legarli le mani, li mandassemo a terra con nove uomini, acciò guidasseno li nostri dove
stava la moglie de uno di quelli [che] avevamo presi, perchè fortemente con segni la lamentava
acciò ella intendessemo. Andando, uno se desligò le mani e corse via, con tanta velocità che li nostri
lo perseno di vista. Andò dove stava la sua brigata e non trovò uno de li suoi, che era rimasto con le
femmine, perchè era andato alla casa. Subito lo andò a trovare e contògli tutto il fatto. L’altro tanto
se sforzava per desligarse che li nostri lo ferirono un poco sopra la testa e sbuffando condusse li
nostri dove stavano le loro donne. Giovan Carvagio piloto, capo de questi, non volse torre la donna
quella sera, ma dormitte ivi, perché se faceva notte. Li altri due vennero e vedendo costui ferito, se
dubitavano e non dissero niente allora, ma nell’alba parlorono a le donne. Subito fuggiteno via e
correvano più li piccoli che li grandi, lassando tutte le loro robe. Dui se trasseno da parte, tirando a
li nostri frezze; l’altro menava via quelli suoi animaletti per cacciare; e così combattendo, uno de
quelli passò la coscia con una frezza a uno de li nostri, il quale subito morì. Quando visteno questo,
subito corseno via. Li nostri avevano schioppetti e balestre, e mai non li poterono ferire. Quando
questi combattevano, mai stavano fermi, ma saltando de qua e de là. Li nostri seppellirono lo morto
e brusarono tutte le robe, che avevano lassate. Certamente questi giganti correno piú [dei] cavalli e
sono gelosissimi de loro mogliere.
Quando questa gente se sente male al stomaco, in loco de purgarse, se mettono ne la gola dui
palmi e piú d’una frezza e gomitano colore verde mischiato con sangue, perchè mangiano certi cardi.
Quando li dole el capo, se dànno nel fronte una tagiatura nel traverso, e così ne le bracce, ne le
gambe e in ciascuno loco del corpo, cavandose molto sangue. Uno di quelli [che] avevamo presi,
che stava ne la nostra nave, diceva come quel sangue non voleva stare ivi e per quello li dava
passione. Hanno li capelli tagliati con la chierega a modo de frati, ma piú longhi, con uno cordone
de bambaso intorno al capo, nel quale ficcano le frezze quando vanno a la cazza. Legano el suo
membro dentro del corpo per lo grandissimo freddo. Quando more uno de questi, ge appareno X o
dodici demoni, ballando molto allegri intorno al morto, tutti depinti. Ne vedono uno sovra li altri
assai più grandi, gridando e facendo più gran festa. Così come el demonio li appare depinto, de
quella sorte se depingono. Chiamano el demonio maggior Setebos, a li altri Cheleulle. Ancora costui
ne disse con segni avere visto li demoni con due corni in testa e peli longhi che coprivano li piedi,
gettare foco per la bocca e per il culo. Il capitano generale nominò questi popoli Patagoni. Tutti se
vestono de la pelle de quello animale già detto. Non hanno case, se non trabacche de la pelle del
medesimo animale e con quelle vanno mo’ di qua, mo’ di là, come fanno li Cingani. Vivono di carne
cruda e de una radice dolce, che la chiamano chapae. Ogni uno de li due, che pigliassemo,
mangiava una sporta de biscotto e beveva in una fiata mezzo secchio de acqua. E mangiavano li
sorci senza scorticarli.
Stessemo in questo porto, el quale chiamassemo porto de Santo Giuliano, circa di cinque
mesi, dove accaddettero molte cose. Acciò che Vostra illustrissima signoria ne sappia alcune, fu
che, subito entrati nel porto, li capitani de le altre quattro navi ordinarono uno tradimento per
ammazzare il capitano generale: e questi erano el vehadore de l’armata, che se chiamava Gioan de
Cartagena, el tesoriero Alovise de Mendoza, el contadore Antonio Cocha e Gaspar de Casada. E
squartato el vehador da li uomini, fu ammazzato lo tesoriero a pognalade, essendo descoperto lo
tradimento. De lì alquanti giorni Gaspar de Cazada per voler fare un altro tradimento, fu sbandito
con un prete in questa terra Patagonia. El capitano generale non volle farlo ammazzare perchè lo
imperatore don Carlo lo aveva fatto capitano.
Una nave, chiamata Sancto Iacopo, per andare a descovrire la costa si perse. Tutti gli uomini
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si salvarono per miracolo, non bagnandose. Appena due de questi venirono a le navi e ne dissero el
tutto. Per il che el capitano generale ghe mandò alcuni uomini con sacchi de biscotto. Per due mesi
ne fu forza portarli el vivere; perchè ogni giorno trovavano qualche cosa de la nave. El viaggio de
andare era longo 24 leghe, che sono cento miglia; la via asprissima e piena de spini. Stavano 4
giorni in viaggio; la notte dormivano in macchioni; non trovavano acqua da bevere, se non ghiaccio,
il quale ne era grandissima fatica. In questo porto era assaissime cappe longhe, che le chiamano
missiglioni, avevano perle nel mezzo, ma piccole, che non le potevano mangiare. Anco se trovava
incenso, struzzi, volpe, pàssae e conigli più piccoli assai de li nostri. Qui, in cima del piú alto monte,
drizzassemo una croce in segno de questa terra che era del re di Spagna, e chiamassemo questo
monte Monte de Cristo.
Partendone de qui, in 51 grado manco un terzo all’Antartico, trovassemo uno fiume de acqua
dolce nel quale le navi quasi [se] perseno per li venti terribili; ma Dio e li Corpi Santi le aiutarono.
In questo fiume tardassemo circa due mesi per fornirne de acqua, legna e pesce, longo uno brazzo e
piú, con squame. Era molto buono, ma poco: e innanzi [che] se partissemo de qui el capitano
generale e tutti noi se confessassemo e comunicassemo come veri cristiani.
Poi andando a 52 gradi al medesimo polo, trovassemo nel giorno delle Undecimila vergine
uno stretto, el capo del quale chiamammo Capo de le undece mila Vergine, per grandissimo
miracolo. Questo stretto è longo cento e dieci leghe, che sono 440 miglia, e largo più o manco de
mezza lega, che va a riferire in un altro mare, chiamato mar Pacifico, circondato da montagne
altissime caricate de neve. Non [g]li potevamo trovar fondo se non con lo proise in terra in 25 e 30
brazza. E se non era el capitano generale non trovavamo questo stretto, perchè tutti pensavamo e
dicevamo come era serrato tutto intorno: ma il capitano generale, che sapeva de dover fare la sua
navigazione per uno stretto molto ascoso, come vide ne la tesoreria del re di Portugal in una carta
fatta per quello eccellentissimo uomo Martin di Boemia, mandò due navi, Santo Antonio e la
Concezione, che così le chiamavano, a vedere che era nel capo della baia.
Noi, con le altre due nave, la capitania, [che] se chiamava Trinidade, l’altra la Victoria,
stessemo ad aspettarle dentro ne la baia. La notte ne sopravvenne una grande fortuna, che durò fino
a l’altro mezzogiorno, per il che ne fu forza levare l’ancore e lasciare andare de qua e de là per la
baia. A le altre due navi li era traversia e non potevano cavalcare uno capo, che faceva la baia quasi
in fine, per venire a noi, sì che le era forza a dare in secco. Pur accostandose al fine de la baia,
pensando de essere persi, vitteno una bocca piccola, che non pareva bocca, ma uno cantone, e come
abbandonati se cacciarono dentro, sì che per forza discoperseno el stretto; e vedendo che non era
cantone, ma uno stretto de terra, andarono piú innanzi e trovarono una baia. Poi, andando più oltra,
trovarono uno altro stretto e un’altra baia più grande che le due prime. Molto allegri, subito voltorno
indietro per dirlo al capitano generale.
Noi pensavamo fossero perse, prima per la fortuna grande, l’altra perchè erano passati dui
giorni e non apparevano, e anco per certi fumi che facevano dui de li sui mandati in terra per
avvisarne. E così stando sospesi, vedemmo venire [le] due navi con le vele piene e con le bandiere
spiegate verso di noi. Essendo così vicine, subito scaricarono molte bombarde e gridi; poi tutti
insieme, rengraziando Iddio e la Vergine Maria, andassemo a cercare più innanzi.
Essendo entrati in questo stretto, trovassemo due bocche, una al scirocco, l’altra al garbino. Il
capitano generale mandò la nave Santo Antonio insieme con la Concezione per vedere se quella
bocca, che era verso scirocco, aveva esito nel mare Pacifico. La nave Santo Antonio non volle
aspettare la Concezione, perchè voleva fuggire per ritornare in Ispagna, come fece. Il piloto de
questa nave se chiamava Stefan Gomes, lo quale odiava molto lo capitan generale, perchè, innanzi
[che] si facesse questa armata, costui era andato da lo imperatore per farse dare alcune caravelle per
discovrire terra; ma per la venuta del capitano generale sua magestà non le li dette. In questa nave
era l’altro gigante, che avevamo preso, ma, quando entrò nel caldo, morse.
La Concezione, per non poter seguire questa, la aspettava andando di qua e di là. La Santo
Antonio a la notte tornò indietro e se fuggì per lo medesimo stretto. Nui eramo andati a descovrire
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l’altra bocca verso el garbin. Trovando per ogni ora el medesimo stretto, arrivassemo a uno fiume,
che ‘l chiamassemo fiume delle Sardine, perchè appresso de questo ne erano molte: e così quivi
tardassemo quattro giorni per aspettare le [altre] due navi. In questi giorni mandassemo uno battello
ben fornito per descoprire el capo de l’altro mare. Venne in termine di tre giorni e dissero como
avevano veduto el capo e el mare amplo.
El capitano generale lagrimò per allegrezza, e nominò quel capo Deseado, perchè l’avevamo
già gran tempo desiderato. Tornassemo indietro per cercare le due navi e non trovassemo se non la
Concezione. E, domandandoli dove era l’altra, rispose Gioan Serrano, che era capitano e pilota de
questa e anco de quella che se perse, che non sapeva e che mai non l’aveva veduta dappoi che ella
entrò nella bocca. La cercassemo per tutto lo stretto fin in quella bocca dov’ella fuggitte. Il capitano
generale mandò indietro la nave Victoria fino al principio del stretto per vedere se ella era ivi, e, non
trovandola, mettesse una bandiera in cima de alcuno monticello con una lettera in una pignattella,
ficcata in terra presso la bandiera, acciò vedendola, trovassero la lettera e sapessero lo viaggio che
facevano: perchè così era dato lo ordine fra noi, quando se smarrivano le navi una de l’altra. Se mise
due bandiere con le lettere, una a uno monticello ne la prima baia, l’altra in una isoletta nella terza
baia, dove erano molti lovi marini e uccelli grandi.
Il capitano generale l’aspettò con l’altra nave appresso el fiume Isleo; e fece mettere una croce
in una isoletta circa de questo fiume, el quale erra tra alte montagne caricate de neve e descende al
mare appresso el fiume de le Sardine. Se non trovavamo questo stretto, el capitano generale aveva
deliberato andare fino a 75 gradi al polo antartico, dove in tale altura al tempo de la estate non ce è
notte, e, se glie n’è, è poca, e così nell’inverno giorno.
Acciò che vostra illustrissima signoria il creda, quando éramo in questo stretto, le notte erano
solamente de tre ore e era nel mese d’ottobre. La terra di questo stretto a man manca era voltata al
scirocco e era bassa. Chiamassemo a questo stretto el stretto patagonico, in lo qual se trova, ogni
mezza lega, securissimi porti, acque eccellentissime, legna se non di cedro, pesce, sardine,
missiglioni e appio, erba dolce, ma ce n’è anche di amare; nasce attorno le fontane, del quale
mangiassimo assai giorni per non aver altro. Credo non sia al mondo el piú bello e miglior stretto,
come è questo. In questo mar Oceano se vede una molto dilettevole caccia de pesci. Sono tre sorte
de pesci longhi uno braccio e più, che se chiamano doradi, albacore e boniti, li quali seguitano pesci
che volano, chiamati colondrini, longhi un palmo e più; e sono ottimi al mangiare. Quando quelle
tre sorte trovano alcuni di questi volanti, subito li volanti saltano fora de l’acqua e volano, finchè
hanno le ale bagnate, più d’uno trar di balestra. Intanto che questi volano, gli altri li corrono indietro,
sott’acqua, a la sua ombra. Non sono così presto cascati ne l’acqua, che subito li pigliano e
mangiano: cosa invero bellissima da vedere.
VOCABOLI DE LI GIGANTI PATAGONI
Al capo = her
All’occhio = other
Al naso = or
Alle ciglia = occhechel
Alle palpebre = sechechiel
A li busi del naso = oresche
A la bocca = xiam
A li labbri = schiahame
A li denti = phor
Alla lingua = schial
Al mento = sechen
A li peli = archiz
Al volto = cogechel
A la coppa = schialeschin
A la gola = ohumez
A le spalle = pelles
Al gomito = cotel
A la mano = chene
A la palma de la mano = caimeghin
Al dito = cori
A le orecchie = sane
Sotto al braccio = salischin
A la mammella = othen
Al petto = ochii
Al corpo = gechel
Al membro = sachet
A li testicoli = sacancos
A la natura delle donne = jsse
All’usar con esse = jo hoi
A le cosce = chiane
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Al ginocchio = tepin
Al culo = schiaguen
A le culatte = hoij
Al brazzo = maz
Al polso = holion
A le gambe = coss
Al piede = thee
Al calcagno = tere
A la caviglia del piè = perchi
A la sola del piè = caotscheni
A le unghie = colim
Al core = thol
Al grattare = gechare
A l’uomo guercio = calischen
Al giovane = calemi
A l’acqua = holi
Al fuoco = ghialeme
Al fumo = giaiche
Al no = ehen
Al sì = rey
A l’oro = pelpeli
A le pietre azzurre = secheg
Al sole = calexcheni
Alle stelle = settere
Al mare = aro
Al vento = oni
A la fortuna = ohone
Al pesce = hoi
Al mangiare = mechuiere
A la scodella = elo
A la pignatta = aschanie
Al domandare = ghelbe
Vien qui = hai si
Al guardar = chonne
A l’andar = rey
Al combattere = oamaghce
A le frezze = sethe
Al cane = holl
Al lupo = ani
A l’andar longe = schien
A la guida = anti
A la neve = theu
Al correre = hiam
Al struzo uccello = hoihoi
A la polvere d’erba che mangiano = capac
A li sui = om jani
A l’odorare = os
Al pappagallo = cheche
A la gabiota uccella = cleo
Al misiglion = siameni
Al panno rosso = torechai
Al bonnet = aichel
Al colore negro = ninel
Al rosso = taiche
Al giallo = peperi
Al cucinare = yrocoles
A la cintura = cathechin
A l’oca = cache
Al diavolo grande = Setebos
A li piccoli = Cheleule
Tutti questi vocaboli si pronunciano in gorga, perchè così li pronunziano loro.
Me disse questi vocaboli quel gigante, che avevamo nella nave, perchè domandandome capac,
cioè pane, che così chiamano quella radice che usano loro per pane, e oli, cioè acqua, quando el me
vide scrivere questi nomi, domandandoli poi de li altri con la penna in mano, me intendeva. Una
volta feci la croce e la baciai, mostrandogliela. Subito gridò Setebos, e facemi segno, se più facessi
la croce, [che] me intrerebbe nel corpo e farebbe crepare. Quando questo gigante stava male,
domandò la croce abbracciandola e baciandola molto. Se volle far cristiano innanzi la sua morte. El
chiamassemo Paolo. Questa gente quando voleno far fuoco, fregano uno legno pontino con un altro,
in fine che fanno lo fuoco in una certa medolla d’arbore, che è fra questi due legni.
Mercore a 28 de novembre 1520 ne disbucassemo da questo stretto s’ingolfandone mar
Pacifico. Stessemo tre mesi e venti giorni senza pigliare refrigerio di sorta alcuna. Mangiavamo
biscotto, non più biscotto, ma polvere de quello con vermi a pugnate, perchè essi avevano mangiato
il buono: puzzava grandemente de orina de sorci, e bevevamo acqua gialla già putrefatta per molti
giorni, e mangiavamo certe pelle de bove, che erano sopra l’antenna maggiore, acciò che l’antenna
non rompesse la sartia, durissime per il sole, pioggia e vento. Le lasciavamo per quattro o cinque
giorni nel mare, e poi se metteva uno poco sopra le brace e così le mangiavamo, e ancora assai volte
segatura de asse. Li sorci se vendevano mezzo ducato lo uno e se pur ne avessemo potuto avere. Ma
sovra tutte le altre sciagure questa era la peggiore: crescevano le gengive ad alcuni sopra li denti
così de sotto come de sovra, che per modo alcuno non potevano mangiare, e così morivano per
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questa infermità. Morirono 19 uomini e il gigante con uno Indio de la terra del Verzin. Venticinque
o trenta uomini se infirmarono, chi ne le braccia, ne le gambe o in altro loco, sicchè pochi restarono
sani. Per la grazia de Dio, io non ebbi alcuna infermitade.
In questi tre mesi e venti giorni andassemo circa de quattro mila leghe in uno golfo per questo
mar Pacifico (in vero è bene pacifico, perchè in questo tempo non avessimo fortuna) senza vedere
terra alcuna, se non due isolotte disabitate, nelle quali non trovassimo altro se non uccelli e arbori; le
chiamassemo Isole Infortunate.
Son lungi l’una dall’altra duecento leghe. Non trovavamo fondo appresso de loro, se non
vedevamo molti tiburoni. La prima isola sta in 15 gradi di latitudine a l’australe, e l’altra in 9. Ogni
giorno facevamo cinquanta, sessanta e settanta leghe a la catena, o a poppa. E se Iddio e la sua
Madre benedetta non ne dava così buon tempo, morivamo tutti de fame in questo mare grandissimo.
Quando fossimo usciti da questo stretto, se avessemo navigato sempre al ponente, averessimo
dato una volta al mondo senza trovare terra niuna se non el capo de le XI mila Vergine, che è capo
de questo stretto al mar Oceano, levante ponente con lo capo Deseado del mare Pacifico, li quali due
capi stanno in 52 gradi di latitudine puntualmente al polo Antartico.
Il polo Antartico non è così stellato come lo Artico. Se vede molte stelle piccole, congregate
insieme, che fanno in guisa de due nebule poco separate l’una dall’altra e uno poco offusche, in
mezzo delle quale stanno due stelle molto grandi, nè molto relucenti e poco se moveno. La calamita
nostra, zavariando uno sempre, tirava al suo polo Artico; niente de meno non aveva tanta forza
come da la banda sua. E però, quando èramo in questo golfo, il capitano generale domandò a tutti li
piloti, andando sempre a la vela, per qual cammino navigando pontasseno su le carte. Risposero
tutti: Per la sua via puntualmente data: li rispose che pontavano falso, così come era, e che
conveniva aiutare la guglia del navigare, perchè non riceveva tanta forza dalla parte sua. Quando
èramo in questo golfo vedessimo una croce de cinque stelle lucidissime, dritto al ponente e sono
giustissime una con l’altra.
In questi giorni navigassemo tra il ponente e il maestrale e a la quarta del maestrale in verso
ponente e al maestrale, finchè giungessimo a la linea equinoziale, lungi dalla linea de la ripartizione
cento e vinti gradi. La linea de la ripartizione è 30 gradi lungi dal meridionale: el meridionale è 3
gradi al levante lungi da Capo Verde. In questo cammino passassemo poco lungi da due isole
ricchissime, una in venti gradi di latitudine al polo Artico, che se chiama Cipangu; l’altra in quindici
gradi, chiamata Sumdit Pradit. Passata la linea equinoziale, navigassero tra ponente e maestrale e
alla quarta del ponente verso il maestrale; poi duecento leghe al ponente, mutando il viaggio a la
quarta verso garbin fin in 13 gradi al polo Artico per apropinquarse più a la terra del capo de
Gaticara, el qual capo, con pardon de li cosmografi perchè non lo visteno, non si trova dove loro li
pensavano, ma al settentrione in 12 gradi, poco più, poco manco.
Circa de settanta leghe alla detta via, in dodeci gradi di latitudine e 146 de longitudine a 6 de
marzo discoprissemo una isola al maistrale piccola e due altre al garbin. Una era più alta e più
grande delle altre due. Il capitano generale voleva fermarse nella grande per pigliare qualche
refrigerio; ma non potè, perchè la gente de questa isola entravano ne le navi e rubavano chi una
cosa, chi l’altra, talmente che non potevamo guardarsi. Volevano calare le vele a ciò andassimo in
terra: ne roborono lo schifo che stava legato da poppa de la nave capitana con grandissima
prestezza. Per il che corrucciato il capitano generale andò in terra con quaranta uomini armati e
brusarono da quaranta o cinquanta case con molti barchetti e ammazzarono sette uomini, e riebbe lo
schifo. Subito ne partissemo seguendo lo medesimo cammino. Innanzi che dismontassemo in terra
alcuni nostri infermi ne pregorono, se ammazzavamo uomo o donna, li portassemo li interiori,
perchè subito sarebbeno sani.
Quando ferivamo alcuni di questi con li verrettoni, che li passavano li fianchi da l’una banda
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all’altra, tiravano il verrettone mo’ di qua, mo’ di là, guardandolo; poi lo tiravano fuora
meravigliandosi molto, e così morivano: e altri che erano feriti nel petto facevano il simile. Ne
mosseno a gran compassione. Costoro vedendone partire ne seguitarono con più de cento barchetti
più d’una lega: se accostavano a le navi mostrandone pesce con simulazione de darnelo; ma traevano
sassi e poi fuggivano. Andando le navi con vele piene, passavano fra loro e li battelli con quelli suoi
barchetti molto destrissimi. Vedessimo alcune femmine in li barchetti gridare e scapigliarsi, credo
per amore de li suoi morti.
Ognuno de questi vive secondo la sua volontà; non hanno signore: vanno nudi, e alcuni
barbati, con li capelli negri fino a la cinta ingruppati. Portano cappelletti de palma come li Albanesi;
sono grandi come noi e ben disposti; non adorano niente; sono olivastri, ma nascono bianchi: hanno
li denti rossi e negri, perchè la reputano cosa bellissima. Le femmine vanno nude; se non che
dinnanzi a la sua natura portano una scorza stretta, sottile come la carta, che nasce fra l’albore e la
scorza della palma; sono belle, delicate e bianche più che li uomini, con li capelli sparsi e longhi,
negrissimi, fino in terra. Queste non lavorano, ma stanno in casa tessendo store, casse de palma e
altre cose necessarie a casa sua. Mangiano cocchi, batate, uccelli, fichi longhi uno palmo, canne
dolci e pesci volatori con altre cose. Se ungono il corpo e li capelli con olio de cocco e di giongioli;
le sue case sono tutte fatte di legno, coperte di tavole con foglie di figàro, de sopra lunghe due
braccia, con solari e con fenestre; le camere e li letti tutti forniti di store bellissime de palma.
Dormono sovra paglia molto molle e minuta. Non hanno arme, se non certe aste con un osso
pontino de pesce ne la cima.
Questa gente è povera, ma ingegnosa e molto ladra: per questa chiamassemo queste tre isole le
isole de li ladroni. El suo spasso è andare con le donne per mare con quelle sue barchette. Sono
come le fucelere, ma più strette; alcune negre, bianche, e altre rosse. Hanno da l’altra parte della vela
un legno grosso, pontino ne le cime, con pali attraversati, che il sostentano ne l’acqua per andare più
securi alla vela. La vela è di foglie de palma cucite insieme e fatta a modo della latina. Per timone
hanno certe pale, come da forno, con un legno in cima: fanno della poppa prora e de la prora poppa;
e sono come delfini nel saltar a l’acqua de onda in onda. Questi ladroni pensavano, a li segni che
facevano, [che] non fossero altri uomini al mondo, se non loro.
Sabato, a 16 de marzo 1521, dessemo, ne l’aurora, sovra una terra alta, lungi trecento leghe
dalle isole de li Ladroni, la qual è isola e se chiama Zamal. El capitano generale nel giorno seguente
volse dismontare in un’altra isola desabitata, per essere più sicuro che era di dietro de questa, per
pigliare acqua e qualche diporto. Fece fare due tende in terra per li infermi e fece li ammazzare una
porca. Luni a 18 di marzo vedessemo da poi disnare venire verso di noi una barca con nove uomini,
per il che lo capitano generale comandò che niuno si movesse, nè dicesse parola alcuna senza sua
licenza. Quando arrivorono questi in terra, subito lo suo principale andò dal capitano generale,
mostrandose allegro per la nostra venuta. Restarono cinque de questi più ornati con noi; li altri
andorono a levare alcuni altri, che pescavano; e così venirono tutti.
Vedendo lo capitano generale che questi erano uomini con ragione, li fece dare da mangiare e
li donò bonetti rossi, specchi, pettini, sonagli, avorio, boccasini e altre cose. Quando visteno la
cortesia del capitano, li presentorono pesci, uno vaso de vino de palma, che lo chiamavano vraca,
fichi più lunghi d’un palmo e altri più piccoli, più saporiti, e due cocchi. Allora non avevano altro.
Ne fecero segni con la mano che in fino a quattro giorni portarebbero umany, che è riso, cocchi e
molta altra vittuaglia.
I cocchi sono frutti de la palma. Così come noi avemo il pane, il vino, l’olio e l’aceto, così
hanno questi popoli ogni cosa da questi arbori. Hanno el vino in questo modo: forano la ditta palma
in cima nel coresino, detto palmito, dal quale stilla uno liquore, come è [il] mosto, bianco, dolce, ma
un poco bruschetto, in canne grosse come la gamba e più: le attaccano a l’arbore la sera per la
mattina e la mattina per la sera. Questa palma fa uno frutto, il quale è lo cocco. Questo cocco è
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grande come il capo, e più e meno. La sua prima scorza è verde e grossa più di dui diti, ne la quale
trovano certi filetti, che fanno le corde che legano le sue barche. Sotto di questa ne è una dura e
molto più grossa di quella de la noce. Questa la brusano e fanno polvere buona per loro. Sotto di
questa è una medolla bianca, grossa come un dito, la qual mangiano fresca con la carne e il pesce,
come noi lo pane, e di quel sapore che è la mandorla. Chi la seccasse, se farebbe pane. In mezzo de
questa medolla è una acqua chiara, dolce e molto cordiale; e quando questa acqua sta un poco
accolta, se congela e diventa como uno pomo. Quando voleno fare olio, pigliano questo cocco e
lassano putrefare quella medolla con l’acqua e poi fanno bollire e viene olio come butirro. Se può
fare anche latte, come noi facevamo. Grattavamo questa medolla, poi la mischiavamo con l’acqua
sua medesima strucandola in uno panno, e così era latte como di capra. Queste palme sono como
palme de li datteri, ma non così nodose, se non lisce. Una famiglia di X persone, con due di queste
se mantengono fruendo 5 otto giorni l’una e otto giorni l’altra per lo vino: se altramente facessono,
se seccherebbeno: e durano cento anni.
Grande familiaritade pigliarono con nui questi popoli. Ne dissero molte cose come le
chiamavano e li nomi de alcune isole, che se vedevano de qui. La sua se chiama Zuluan, la quale
non è troppo grande. Pigliassemo gran piacere con questi, perchè erano assai piacevoli e
conversabili. Il capitano generale, per farli più onore, li menò a la sua nave e li mostrò tutta la sua
mercadanzia, garofoli, cannella, pevere, noce moscada, macia, oro e tutte le cose che erano nella
nave; fece descaricare alcune bombarde. Ebbero gran paura e volsero saltar fuora de la nave. Ne
fecero segni quelli dove noi andavamo nascessevano le cose suddette. Quando si volsero partire,
pigliarono licenza con molta grazia e gentilezza, dicendo che tornarebbeno secondo la sua
promessa. La isola dove éramo se chiama Humunu; ma noi, per trovarli due fontane de acqua
chiarissima, la chiamassemo l’Acquata de li buoni segnali, perchè fu il primo segno de oro che
trovassemo in questa parte. Qui si trova gran quantitade de coralli bianchi e arbori grandi, che fanno
frutti poco minori de la mandorla e sono come li pignoli; e anco molte palme, alcune buone e alcune
altre cattive. In questo loco sono molte isole; per il che lo chiamassemo l’arcipelago de San Lazzaro,
descovrendolo ne la sua Domenica; il quale sta in X gradi di latitudine al polo Artico e
centosessantauno di longitudine della linea de la ripartizione.
Venere a 22 di marzo venirono in mezzodì quelli uomini, secondo ne avevano promesso, in
due barche con cocchi, naranzi dolci, uno vaso de vino de palma, e uno gallo per dimostrare che in
queste parti erano galline. Se mostrarono molto allegri verso de noi; comprassemo tutte quelle cose.
Il suo signor era vecchio e depinto; portava due schione de oro a le orecchie, li altri molte maniglie
de oro a li brazzi, con fazoli intorno al capo. Stessemo quivi otto giorni, ne li quali el nostro
capitano andava ogni dì in terra a visitare li infirmi; e ogni mattina li dava con le sue mani acqua del
cocco, che molto li confortava.
De dietro de questa isola stanno uomini che hanno tanto grandi li picchetti de le orecchie, che
portano li bracci ficcati in loro. Questi popoli sono Cafri, cioè Gentili, vanno nudi con tele de scorza
d’arbore intorno le sue vergogne; se non alcuni principali, con tele de bambaso lavorate ne li capi
con seta a guchia. Sono olivastri, grassi, depinti, e se ongeno con olio de cocco e de giongioli per lo
sole e per il vento. Hanno li capelli negrissimi, fino a la cinta, e hanno daghe, coltelli, lance de oro,
targoni, fiocine, arponi e reti per pescare come rezzali. Le sue barche sono come le nostre.
Nel luni santo, a venticinque de marzo, giorno de la Nostra Donna, passato mezzodì, essendo
di ora in ora per levarsi, andai a bordo della nave per pescare, e, mettendo li piedi sopra una antenna
per discendere ne la mesà di guarnigione, me slizegarono li piedi perchè era piovesto, e così cascai
nel mare che niuno me vide. E essendo quasi sommerso, me venne ne la mano sinistra la scotta de la
vela maggiore, che era ascosa ne l’acqua: me tenni forte e comensai a gridare, tanto che fui aiutato
con lo battello. Non credo già [che] per miei meriti, ma per la misericordia di quella fonte di pietà,
fossi aiutato. Nel medesimo giorno pigliassemo tra il ponente e garbin infra quattro isole: Cenalo,
Hiunanghan, Ibusson e Abarien.
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Iove, a ventiotto de marzo, per aver visto la notte passata fuoco in una isola, ne la mattina
sorgessimo appresso de questa: vedessemo una barca piccola che la chiamano boloto, con otto
uomini de dentro appropinquarse ne la nave capitanea. Uno schiavo del capitano generale, che era
de Zamatra, già chiamata Traprobona, li parlò, il quale subito intesono: vennero nel bordo della
nave, non volendo intrare dentro, ma stavano uno poco discosti. Vedendo el capitano che non
volevano fidarse de noi, li buttò un bonnet rosso e altre cose ligate sopra un pezzo de tavola. La
pigliarono molto allegri e subito se partirono per avvisare il suo re. Da lì circa due ore vedessimo
vegnire due balangai (che sono barche grandi e così le chiamano) pieni di uomini: nel maggiore era
lo suo re sedendo sotto uno coperto de store.
Quando el giunse sotto la capitana, el schiavo li parlò; il re lo intese, perchè in questa parte li
re sanno più linguaggi che li altri: comandò che alcuni suoi intrasseno ne la nave. Lui sempre stette
nel suo balangai poco longe de la nave, finchè li suoi tornarono e, subito tornati, se partì. Il capitano
generale fece grande onore a quelli, che venirono ne la nave; e donolli alcune cose, per il che il re,
innanzi la sua partita, volle donare al capitano una barra de oro grande e una sporta piena de
gengero; ma lui, ringraziando molto, non volse accettarle. Nel tardi andassemo con la nave appresso
la abitazione del re.
Il giorno seguente, che era il Venerdì Santo, il capitano generale mandò lo schiavo, che era lo
interprete nostro, in terra in uno battello a dire al re, se aveva alcuna cosa da mangiare, la facesse
portare in nave, che resteriano bene satisfatti da noi, e come amici e non come nemici eramo venuti
a la sua isola. El re venne con sei, ovvero otto uomini, nel medesimo battello ed entrò ne la nave,
abbracciandosi col capitano generale e donògli tre vasi di porcellana coperti de foglie, pieni di riso
crudo e due orate molto grandi con altre cose. El capitano dette al re una veste de panno rosso e
giallo fatta a la turchesca e uno bonnet rosso fino: a li altri sui, a chi coltelli e a chi specchi. Poi li
fece dare da colazione e, per il schiavo, li fece dire che voleva essere con lui casi casi, cioè fratello:
rispose che così voleva essere verso de lui. Da poi lo capitano gli mostrò panno de diversi colori,
tela, coralli e molta mercanzia e tutta l’artigliaria, facendola descargare.
Alcuni molto se spaventorno; poi fece armare uno uomo con un uomo d’arme e li messe
attorno tre con spade e pugnali, che li davano per tutto el corpo; per la qual cosa el re restò quasi
fora di sè. Li disse per il schiavo che uno de questi armati valeva per cento de li suoi: rispose che era
così e che in ogni nave ne menava duecento, che se armavano de quella sorte. Li mostrò corazzine,
spade e rotelle e fece fare a uno una levata. Poi lo condusse sopra la tolda della nave, che è in cima
de la poppa e fece portare la sua carta da navigare e la bussola e li disse per l’interprete como trovò
lo stretto per venire a lui e quante lune sono stati senza vedere terra. Se meravigliò: in ultimo li disse
che voleva, se li piacesse, mandare seco due uomini, acciò li mostrasse alcune de le sue cose.
Respose che era contento. Io ce andai con un altro.
Quando fui in terra, il re levò le mani al cielo e poi se volse contro noi dui; facessemo lo
simile verso de lui; così tutti li altri fecero. Il re me pigliò per la mano; uno suo principale pigliò
l’altro compagno, e così ne menarono sotto un coperto de canne, dove era uno balangai longo ottanta
palmi de li miei, simile a una fusta. Ne sedessimo sopra la poppa de questo, sempre parlando con
segni. Li suoi ne stavano in piedi attorno attorno con spade, daghe, lance e targoni. Fece portare uno
piatto de carne de porco con uno vaso grande pieno de vino. Bevevamo ad ogni boccone una tazza
de vino: lo vino che li avanzava qualche volta, benchè fosseno poche, se metteva in uno vaso da per
sè. La sua tazza sempre stava coperta; ninguno altro lì beveva se non il re e io. Innanzi che il re
pigliasse la tazza per bere, alzava le mani giunte al cielo e verso de noi, e quando voleva bere,
estendeva lo pugno de la mano sinistra verso di me (prima pensava me volesse dare un pugno) e poi
beveva; faceva cosí io verso il re. Questi segni fanno tutti l’uno verso de l’altro, quando beveno. Con
queste cerimonie e altri segni de amicizia merendassemo.
Mangiai nel Venere Santo carne, per non potere fare altro. Innanzi che venisse l’ora de cenare,
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donai molte cose al re, che avevo portate: scrissi assai cose come le chiamavano. Quando lo re e li
altri me visteno scrivere e li diceva quelle sue parole, tutti restorono attoniti. In questo mezzo venne
l’ora de cenare. Portorono due piatti grandi de porcellana, uno pieno de riso e l’altro de carne de
porco con suo brodo. Cenassimo con li medesimi segni e cerimonie; poi andassimo al palazzo del
re, el quale era fatto come una teza de fieno, coperto de foglie de figàro e de palma. Era edificato
sovra legni grossi, alti de terra, che ‘l se conviene andare con scale. Ne fece sedere sopra una stora
de canne, tenendo le gambe attratte come li sarti. De lì a mezza ora fu portato uno piatto de pesce
brustolato in pezzi e zenzero, per allora colto, e vino.
El figliuolo maggiore del re, ch’era il principe, venne dove èramo: il re li disse che sedesse
appresso noi, e così sedette. Fu portato due piatti, uno de pesce con lo suo brodo, e l’altro de riso, a
ciò che mangiassemo col principe. Il nostro compagno per tanto bere e tanto mangiare diventò
briaco. Usano per lume gomma de arbore, che la chiamano anime, voltata in foglie de palma e de
figàro.
El re ne fece segno che ‘l voleva andare a dormire; lassò con nui lo principe, con quale
dormissemo sopra una stora de canne con cuscini de foglie. Venuto lo giorno, el re venne e me
pigliò per la mano: così andassemo dove avevamo cenato per far colazione, ma il battello ne venne
a levare. Innanzi la partita, el re molto allegro ne basò le mani e noi le sue; venne con noi uno suo
fratello, re d’un’altra isola, con 3 uomini; lo capitano generale lo ritenette a disnare con noi e donògli
molte cose.
Nella isola de questo re, che condussi a le navi, se trova pezzi de oro, grandi come noci e uovi,
crivellando la terra. Tutti li vasi de questo re sono de oro e anche alcuna parte de la casa sua. Così
ne riferitte lo medesimo re. Secondo lo suo costume, era molto in ordine e lo più bello uomo, che
vedessimo tra questi popoli. Aveva li capelli negrissimi fino a le spalle, con un velo de seta sopra lo
capo, e due schione grande de oro taccate a le orecchie; portava uno panno de bombaso tutto
lavorato de seta, che copriva da la cinta fino al ginocchio. Al lato una daga con lo manico alquanto
longo, tutto de oro; il fodero era de legno lavorato: in ogni dente aveva tre macchie d’oro, che
pareva fosseno legati con oro: oleva de storac e belgiovì; era olivastro e tutto depinto. Questa sua
isola se chiama Butuan e Calagan. Quando questi re se vòleno vedere, vèneno tutti due a la caccia in
quest’isola, dove èramo; el re primo se chiama Colambu, il secondo raià Siain.
Domenica, ultimo de marzo, giorno de Pasqua, ne la mattina per tempo el capitano generale
mandò il prete con alquanti a apparecchiare per dovere dire messa, con lo interprete a dire che non
volevamo discendere in terra per desinar seco, ma per aldire messa, per il che lo re ne mandò dui
porchi morti. Quando fu ora de messa, andassemo in terra forse cinquanta uomini, non armati la
persona, ma con le altre nostre arme, e meglio vestiti che potessemo. Innanzi che arrivassemo a la
riva con li battelli, furono scaricati sei pezzi de bombarde in segno de pace. Saltassemo in terra: li
due re si abbrazzarono lo capitano generale e lo mèsseno in mezzo de loro: andassemo in ordinanza
fino al logo consacrato, non molto lungi dalla riva. Innanzi [che] se cominciasse la messa, il
capitano bagnò tutto il corpo de li due re con acqua moscata. Se offerse a la messa: li re andarono a
baciare la croce come noi, ma non offerseno.
Quando se levava lo corpo de Nostro Signore, stavano in genocchioni e adoravanlo con le
mani gionte. Le navi tirarono tutta la artiglieria in un tempo, quando se levò il corpo de Cristo,
dandogli lo segno da la terra con li schioppetti. Finita la messa, alquanti de li nostri se
comunicarono. Lo capitano generale fece fare uno ballo con le spade, de che li re ebbeno gran
piacere; poi fece portare una croce con li chiodi e la corona, a la qual subito fecero reverenzia. Li
disse per lo interprete come questa era il vessillo datogli da lo imperatore suo signore, acciò, in ogni
parte dove andasse, mettesse questo suo segnale, e che voleva metterlo ivi per sua utilità, perchè, se
venissero alcune nave de le nostre, saperiano, con questa croce, noi essere stati in questo loco, e non
farebbero despiacere a loro nè a le cose; e, se pigliassero alcuno de li suoi, subito, mostrandogli
questo segnale, lo lasseriano andare; e che conveniva mettere questa croce in cima del più alto
monte che fosse, acciò, vedendola ogni mattina, la adorassero; e se questo facevano, nè tuoni nè
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fulmini in tempesta li nocerebbe in cosa alcuna.
Lo ringraziarono molto [e dissero] che farebbono ogni cosa volontieri. Anche li fece dire se
erano Mori o Gentili, o in che credevano. Risposero che non adoravano altro, se non [che] alzavano
le mani giunte e la faccia al cielo e che chiamavano lo suo Dio Abba: per la qual cosa lo capitano
ebbe grande allegrezza. Vedendo questo, el primo re levò le mani al cielo e disse che vorria, se fosse
possibile, farli vedere il suo amore verso de lui. Lo interprete gli disse per quale ragione aveva quivi
così poco da mangiare. Rispose che non abitava in questo loco, se non quando veniva a la caccia e a
vedere lo suo fratello; ma stava in una altra isola, dove aveva tutta la sua famiglia.
Li fece dire se aveva nemici lo dicesse, perciò [che] andrebbe con questa nave e distruggerli e
farìa [che] lo obbediriano. Lo rengraziò e disse che aveva bene due isole nemiche, ma che allora non
era tempo de andarvi. Lo capitano li disse [che], se Dio facesse che un’altra fiata ritornasse in queste
parte, condurria tanta gente che farebbe per forza esserli soggette, e che voleva andar a disnare e
dappoi tornerebbe per far porre la croce in cima del monte. Risposero erano contenti. Facendosi un
battaglione con scaricare gli schioppetti e abbracciandosi lo capitano con li due re, pigliassimo
licenza.
Dopo disnare tornassemo tutti in giubbone e andassemo insieme con li due re nel mezzodì in
cima del più alto monte che fosse. Quando arrivassemo in cima, lo capitano generale li disse come
aveva caro avere sudato per loro, perchè, essendo ivi la croce, non poteva se non grandemente
giovarli. E domandolli qual porto era migliore per vettovaglie. Dicessero che ne erano tre; cioè
Ceylon, Zubu e Calaghan; ma che Zubu era più grande e de miglior traffico e se profferseno de
darne piloti che ne insegnerebbeno il viaggio.
Lo capitano generale li ringraziò e deliberò di andar lì, perchè così voleva la sua infelice sorte.
Posta la croce, ognuno disse uno Pater noster e una Ave Maria, adorandola: così li re feceno. Poi
discendessimo per li suoi campi lavorati e andassimo dove era lo balangai. Li re fecero portare
alquanti cocchi, acciò se rinfrescassimo. Lo capitano li domandò li piloti, perchè la mattina seguente
voleva partirsi e che li tratterebbe come sè medesimo, lasciandogli uno dei nostri per ostaggio.
Risposero che ogni ora li volesse erano al suo comando; ma ne la notte il primo re se mutò
d’opinione. La mattina, quando èramo per partirsi, el re mandò a dire al capitano generale che, per
amore suo, aspettasse due giorni, finchè facesse cogliere el riso ed altri suoi minuti, pregandolo
mandasse alcuni uomini per aiutarli, acciò più presto se spacciasse, e che lui medesimo voleva
essere lo nostro piloto.
Lo capitano mandogli alcuni uomini, ma li re tanto mangiarono e bevetteno che dormitteno
tutto il giorno. Alcuni per escusarli dissero che avevano uno poco de male. Per quel giorno li nostri
non fecero niente, ma negli altri dui seguenti lavorarono. Uno de questi popoli ne portò forse una
scodella de riso con otto o dieci fichi, legati insieme, per barattarli con uno coltello che valeva al più
tre quattrini. Il capitano, vedendo [che] questo non voleva altro se non un coltello, lo chiamò per
vedere più cose; mise mano a la borsa e li volse dare per quelle cose uno reale: lui nol volse; gli
mostrò uno ducato, manco lo accettò: al fine li volse dare un doppione di due ducati; non volse mai
altro che un coltello e così glie lo fece dare. Andando uno de li nostri in terra per torre acqua, uno de
questi li volse dare una corona pontina de oro massiccio, grande come una colonna, per sei filze di
cristallino: ma il capitano non volle che la barattasse, acciochè in questo principio sapessero per
periziavamo più la nostra mercanzia che lo suo oro.
Questi populi sono Gentili; vanno nudi e depinti: portano un pezzo de tela de arbore intorno le
sue vergogne; sono grandissimi bevitori. Le sue femmine vanno vestite de tela de arbore da la cinta
in giù, con li capelli negri fino in terra, hanno forate le orecchie e piene de oro. Questa gente sempre
masticano uno frutto che chiamano areca; è come uno pero. Lo tagliano in quattro parti, e poi lo
volveno ne le foglie del suo albero, che le nominano betre; sono come foglie del moraro, con uno
poco de calcina, e, quando le hanno ben masticate, le sputano fora: fanno diventare la bocca
rossissima. Tutti li popoli de questa parte del mondo le usano perchè rinfrescali molto el core. Se
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restasseno de usarle, morirebbeno.
In questa isola sono cani, gatti, porci, galline, capre, riso, zenzero, cocchi, fichi, naranzi,
limoni, miglio, panico, sorgo, cera e molto oro. Sta de latitudine in 9 gradi e due terzi all’Artico, e
162 de longitudine della linea de la ripartizione, e 25 leghe longe de la Acquada, e se chiama
Mazana.
Stessemo sette giorni quivi; poi pigliassimo la via del maestrale passando prima cinque isole,
cioè Ceylon, Bohol, Canigran, Bagbai e Gatighan. In questa isola de Gatighan sono barbastelli
grandi come aquile; perchè era tardi ne ammazzassemo uno: era come una gallina al mangiare. Ce
sono colombi, tortore, pappagalli e certi uccelli negri, grandi come galline, con la coda lunga; fanno
ovi grandi come de oca, li mettono sotto la sabbia per lo gran caldo li crea. Quando sono nasciuti
alzano la arena e vieneno fora. Questi ovi sono boni da mangiare. Da Mazana a Gatighan sono venti
leghe. Partendone da Gatighan al ponente, il re di Mazana non ne potè seguire; perchè lo
aspettassemo circa tre isole, Polo, Ticobon e Poxon. Quando el gionse, molto se meravigliò del
nostro navigare. Lo capitano generale lo fece montare ne la sua nave con alcuni suoi principali, del
che ebbero gran piacere, e così andassemo in Zubu. Da Gatighan a Zubu sono quindici leghe.
La domenica, a 7 de aprile, a mezzo dì, intrassemo nel porto di Zubu; passando per molti
villaggi vedevamo molte case fatte sopra li arbori. Appropinquandose a la città, lo capitano generale
comandò [che] le nave s’imbandierasseno: furono calate le vele e poste a modo de battaglia e scaricò
tutta l’artigliaria, per il che questi popoli ebbero grandissima paura. Lo capitano mandò uno suo
allievo, con lo interprete, ambasciatore al re de Zubu. Quando arrivorno ne la città, trovorono
infiniti uomini insieme con lo re, tutti paurosi per le bombarde. L’interprete li disse questo essere
nostro costume, [che] entrando in simili luoghi, in segno de pace e amicizia e per onorare lo re del
luogo, scaricavamo tutte le bombarde. El re e tutti li suoi se assecurorno; e fece dire a li nostri per lo
suo governatore che [cosa] volevano. L’interprete rispose come el suo signore era capitano del
maggiore re e principe [che] fosse nel mondo, e che andava a discovrire Malucco; ma per la sua
buona fama, come aveva inteso dal re de Mazana, era venuto solamente per visitarlo e pigliare
vittuaglia con la sua marcadanzia.
Li disse che in bona ora era venuto, ma che aveva questa usanza: tutte le navi che entravano
nel porto suo pagavano tributo, e che non erano quattro giorni che uno giunco cargato d’oro e de
schiavi, li aveva dato tributo; e per segno de questo gli mostrò uno mercadante de Ciama che era
restato per mercadantare oro e schiavi. Lo interprete li disse como el suo signore, per essere
capitano de tanto gran re, non pagava tributo ad alcuno signore del mondo, e se voleva pace, pace
avrebbe e se non guerra, guerra. Allora el Moro mercadante disse al re: Cata, raja, chiba, cioè:
Guarda bene, signore: questi sono de quelli che hanno conquistato Calicut, Malacca e tutta l’India
Maggiore. Se bene se li fa, bene si ha; se male, male e peggio, come hanno fato a Calicut e a
Malacca.
L’interprete intese lo tutto e dissegli che ‘l re suo signore era più potente de gente e de navi che
lo re del Portogallo, e era re de Spagna e imperatore de tutti li Cristiani e, se non voleva esserli
amico, li mandaria un’altra fiata tanta gente che lo destrueriano. Il Moro narrò ogni cosa al re. Allora
li disse [che] se consigliarebbe con li sui, e nel dì seguente li responderebbe. Poi fece portare una
colazione de molte vivande, tutte de carne, poste in piatti de porcellane, con molti vasi de vino. Data
la colazione, li nostri retornorono e ne dissero lo tutto. Il re de Mazana, che era lo primo dopo
questo re e signore de alquante isole, andò in terra per dire al re la gran cortesia del capitano
generale.
Luni mattina il nostro scrivano insieme con l’interprete andorono in Zubu: venne il re con li
suoi principali in piazza e fece sedere li nostri appresso lui. Li disse se più d’uno capitano era in
questa compagnia, e se ‘l voleva lui pagasse tributo a l’imperatore suo signor. Rispose de non, ma
voleva solamente [che] mercatandasse con lui e non con altri. Disse che era contento; e, se lo
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capitano nostro voleva essere suo amico, li mandasse un poco de sangue del suo braccio diritto, e
così farebbe lui, per segno de più vera amicizia. Rispose che lo faria. Poi lo re li disse come tutti li
capi che venivano quivi se davano presenti l’uno con l’altro e se lo nostro capitano o lui doveva
cominciare. L’interprete li disse poi che [se] lui voleva mantegnire questo costume, comenzasse;
così comenzò.
Marti mattina el re de Mazana con lo Moro venne a le navi, salutò lo capitano generale da
parte del re e disseli como el re de Zubu faceva adunare più vittuaglia [che] poteva per darnela, e
come manderebbe, dopo disnare, uno suo nipote con due o tre de sui principali per fare la pace. Lo
capitano generale fece armare uno de le sue proprie arme e feceli dire come tutti noi combattevamo
de quella sorta. Il Moro molto si spaventò: il capitano li disse non si spaventasse, perchè le nostre
arme erano piacevoli a li amici e aspre a li nemici; e così come li fazoli asciogano il sudore, così le
nostre arme atterrano e destruggeno tutti li avversari e malevoli della nostra fede. Fece questo acciò
el Moro, che pareva essere più astuto de li altri, lo dicesse al re.
Dopo disnare venne a le navi lo nipote del re, che era principe, col re di Mazana, il Moro, il
governatore e il bargello maggiore con otto principali, per fare la pace con noi. Lo capitano
generale, sedendo in una cattedra de velluto rosso, li principali in sedie de corame e li altri in terra
sovra store, li disse per lo interprete, se lo suo costume era di parlare in secreto, ovvero in pubblico,
e se questo principe col re de Mazana avevano il potere di fare la pace. Rispose che parlavano in
pubblico e che costoro avevano il potere de far la pace.
Lo capitano disse molte cose sovra la pace e che ‘l pregava Iddio la confirmasse in cielo:
dissero che mai non avevano aldite cotali parole e che pigliavano gran piacere a udirle. Vedendo lo
capitano che questi volontieri ascoltavano e rispondevano, li cominciò [a] dire cose per indurli a la
fede.
Domandò qual dopo la morte del re succedesse a la signoria: rispose che lo re non aveva
figlioli, ma figliole, e che questo suo nipote aveva per moglie la maggiore; perciò era lo principe e
quando li padri e madri erano vecchi non si onoravano piú, ma li figlioli li comandavano. Lo
capitano li disse come Iddio fece lo cielo, la terra, lo mare e tante altre cose, e come impose se
dovessero onorare li padri e madri e, chi altramente faceva, era condannato nel fuoco eterno; e come
tutti descendevamo da Adam e Eva, nostri primi parenti; e come avevamo l’anima immortale, e
molte altre cose pertinenti a la fede. Tutti allegri lo supplicorono volesse lasciarli due uomini, o
almeno uno, acciò li ammaestrasse ne la fede e che li farebbeno grande onore. Gli rispose che allora
non poteva lasciarli alcuno, ma se volevano essere Cristiani, lo prete nostro li battezzerebbe, e che
un’altra fiata menaria preti e frati, che li insegnerebbero la fede nostra. Risposero che prima
volevano parlare al re e poi diventarebbero Cristiani. Lagrimassemo tutti per la grande allegrezza.
Lo capitano li disse che non se fecero Cristiani per paura nè per compiacerne, ma
volontariamente, e, a coloro che volevano vivere secondo la sua legge, non li sarebbe fatto
dispiacere alcuno; ma li Cristiani sariano meglio visti e carezzati che gli altri. Tutti gridarono ad una
voce, che non si facevano Cristiani per paura, nè per compiacerne, ma per spontanea volontade.
E allora li disse che, se diventavano Cristiani, gli lascerebbe una armatura; perchè così li era
stato imposto dal suo re, e come non potevano usare con le sue donne, essendo Gentili, senza
grandissimo peccato; e come li assecurava, che, essendo Cristiani, non li apparirebbe più el
demonio, se non nel punto estremo della sua morte. Disseno che non sapevano risponderli per le sue
belle parole, ma se rimettevano nelle sue mani e facesse de loro come dei suoi fedelissimi servitori.
Lo capitano, piangendo, li abbrazzò, e aggiungendo una mano del principe e una del re fra le sue, li
disse per la fede [che] portava a Dio e per lo abito che aveva, li prometteva che li dava la pace
perpetua col re di Spagna. Risposeno che lo simile promettevano.
Conclusa la pace, lo capitano fece dare una colazione; poi lo principe e [lo] re presentarono al
capitano, da parte del suo re, alquanti cestoni de riso, porci, capre e galline, e gli dissero li
perdonasse per ciò [che] tal cose erano poche a uno simile a lui. Lo capitano donò al principe uno
panno bianco di tela sottilissima, uno bonnet rosso, alquante filze de cristallino e uno bicchier
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dorato de vetro. Li vetri sono molto apprezzati in queste parti. Al re di Mazana non li dette alcun
presente, perchè già li aveva dato una veste de Cambaya con altre cose, e a li altri a chi una cosa, a
chi un’altra.
Mandò poi al re de Zubu, per mi e uno altro, una veste di seta gialla e morella a guisa
turchesca, uno bonnet rosso fino, alquante filze de cristallino, posto ogni cosa in uno piatto
d’argento e due biccheri dorati in mano.
Quando fossimo ne la città, trovassemo lo re in suo palazio con molti uomini, che sedeva in
terra sovra una stora de palma: aveva solamente uno panno de tela de bombaso dinanzi alle sue
vergogne, uno velo intorno al capo, lavorato a gucchia, una collana al collo de gran prezio, due
schione grande de oro [at]taccate a le orecchie, con pietre preziose attorno.
Era grasso e piccolo e depinto con lo fuoco a diverse maniere: mangiava in terra sovra un’altra
stora ovi de bissa scutellara, posti in due vasi de porcellana; e aveva dinnanzi quattro vasi pieni de
vino de palma, serrati con erbe odorifere, e ficcati quattro cannuti: con ogni uno de questi beveva.
Fatta la debita reverenza, l’interprete li disse como lo suo signore lo rengraziava molto del suo
presente, e che li mandava questo, non per il suo, ma per lo [in]trinsico amore [che] li portava. Li
vestissimo la veste, gli ponessimo il bonnet in capo e li dessemo le altre cose: e poi baciando li vetri
e ponendoli sovra lo capo, le li presentai e facendo lui il simile, li accettò. Poi il re ne fece mangiare
de quelli ovi e bere con quelli cannuti. Li altri sui in questo mezzo gli dissero lo parlamento del
capitano sovra la pace e lo esortamento per farli Cristiani.
Il re ne volse tener seco a cena; li dicessemo non potevamo allora restare. Pigliata la licenza, il
principe ne menò seco a casa sua, dove sonavano quattro fanciulle, una de tamburo a modo nostro,
ma era posta in terra; un’altra dava con un legno, fatto alquanto grosso nel capo con tela de palma, in
due borchie piccate, uno in l’uno, uno in l’altro: l’altra in una borchia grande col medesimo modo: la
ultima con due borchiette in mano; dando l’una nell’altra, facevano un soave suono. Tanto a tempo
sonavano, che pareva avessero gran ragion del canto. Queste erano assai belle e bianche, quasi come
le nostre e così grandi: erano nude, se non che avevano tela de arbore da la cinta fino al ginocchio, e
alcune tutte nude, col picchietto de le orecchie grande, con un cerchietto de legno dentro, che lo
tiene tondo e largo; con li capelli grandi e negri, e con uno velo piccolo attorno al capo, e sempre
discalze. Il principe ne fece ballare con tre, tutte nude. Merendassemo e da poi venissemo alle navi.
Queste borchie sono de metallo e se fanno nella regione del Signio Magno, che è detta la China.
Quivi le usano come noi le campane e le chiamano aghon.
Mercore mattina, per esser morto uno dei nostri ne la notte passata, l’interprete ed io
andassemo a domandare al re dove lo poteriamo seppellire. Trovassemo lo re accompagnato da
molti uomini, a cui, fatta la debita reverenzia, li lo dissi. Rispose: “se io e li miei vassalli semo tutti
del tuo signore, quanto maggiormente deve esser [sua] la terra ”. E li dissi come volevamo
consecrare il luogo e metterli una croce: rispose che era molto contento e che la voleva adorare
come noi altri. Fu sepolto lo morto ne la piazza, al meglio potessemo, per darli bon esempio; e poi
la consacrassemo; sul tardi ne seppellissimo un altro. Portassemo molta mercanzia in terra, e la
mettessemo in una casa, qual el re la tolse sovra sua fede, e quattro uomini che erano restati per
mercatandare in grosso.
Questi popoli vivono con giustizia, peso e misura; amano la pace, l’ozio e la quiete: hanno
bilance de legno. Lo legno ha una corda nel mezzo con la quale se tiene; d’uno capo è piombo, e de
l’altro segni come quarti, terzi e libbre. Quando voleno pesare pigliano la bilancia, che è con tre fili
como le nostre, e la metteno sovra li segni, e così pesano giusto. Hanno misure grandissime senza
fondo. Le giovani giocano a la zampogna, fatte come le nostre, e le chiamano subin. Le case sono
de legno de tavole e de canne, edificate sopra pali grossi, alte da terra, che bisogna andarvi dentro
con scale e hanno camere come le nostre. Sotto le case teneno li porci, capre e galline.
Se trovano quivi cornioli grandi, belli a vedere, che ammazzano le balene, le quale li
inghiottono vivi. Quando loro sono nel corpo, veneno fuora del suo coperto e li mangiano el core.
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Questa gente li trovano poi vivi appresso del core de le balene morte. Questi [cornioli] hanno denti,
la pelle negra, il coperto bianco e la carne: sono boni da mangiare e li chiamano laghan.
Venere li mostrassemo una bottega piena de le nostre mercanzie, per il che restorono molto
ammirati: per metallo, ferro e l’altra mercanzia grossa ne davano oro: per le minute ne davano riso,
porci e capre con altre vettovaglie. Questi popoli ne davano X pesi de oro per XIIII libbre de ferro:
un peso è circa d’uno ducato e mezzo. Lo capitano generale non volse se pigliasse troppo oro,
perchè sarebbe stato alcuno marinaro che avrebbe dato tutto lo suo per uno poco de oro, e averia
disconciato lo traffico per sempre.
Sabato, per avere promesso lo re al capitano de farsi Cristiano ne la Domenica, se fece ne la
piazza, che era sacrata, uno tribunale adornato de tapezzeria e rami de palme per battizzarlo: e
mandolli a dire che nella mattina non avesse paura de le bombarde, per ciò [che] era nostro costume,
ne le feste maggiore, descaricarle senza pietre.
Domenica mattina, a quattordese de aprile, andassemo in terra quaranta uomini, con due
uomini tutti armati dinanzi a la bandiera reale. Quando dismontassemo, se tirò tutta la artiglieria.
Questi popoli seguivano de qua e de là. Lo capitano e lo re se abbracciorono. Li disse che la
bandiera reale non se portava in terra, se non con cinquanta uomini, come erano li dui armati, e con
cinquanta scoppettieri; ma per lo suo grande amore così la aveva portata. Poi tutti allegri andassemo
presso al tribunale. Lo capitano e lo re sedevano in cattedre de velluto rosso e morello, li principali
in cuscini, li altri sovra store.
Lo capitano disse al re, per lo interprete, [che] ringraziasse Iddio per ciò [che] lo aveva
inspirato a farse Cristiano, e che vincerebbe più facilmente li sui nemici che prima. Rispose che
voleva esser Cristiano; ma alcuni suoi principali non volevano obbedire, perchè dicevano essere
così uomini come lui. Allora lo nostro capitano fece chiamare tutti li principali del re, e disseli, se
non obbedivano al re come suo re, li farebbe ammazzare e darìa la sua roba al re. Risposero [che] lo
obbedirebbono. Disse al re [che], se andava in Spagna, ritornerebbe un’altra volta con tanto potere,
che lo faria lo maggiore re de quelle parte, perchè era stato primo a voler farse Cristiano. Levando le
mani al cielo, [il re] lo ringraziò e pregò [che] alcuni de li suoi rimanesse, acciò meglio lui e li suoi
popoli fossero istruiti nella fede. Lo capitano rispose che per contentarlo li lasserebbe dui; ma
voleva menar seco dui fanciulli de li principali, acciò imparassero la lingua nostra, e poi, a la
ritornata, sapessero dire a questi altri le cose di Spagna.
Se mise una croce grande nel mezzo de la piazza. Lo capitano li disse [che], se si volevano far
Cristiani, come avevano detto ne li giorni passati, li bisognava brusare tutti li suoi idoli, e nel luogo
loro mettere una croce e ogni dì con le mani giunte adorarla e ogni mattina nel viso farsi lo segno de
la Croce, mostrandoli come se faceva; e ogni ora, almeno de mattina, dovessero venire a questa
croce e adorarla in genocchioni, e quel che avevano già detto, volesser con le buone opere
confirmarlo. El re con tutti li altri volevano confirmare lo tutto. Lo capitano generale li disse come
s’era vestito tutto de bianco per mostrarli lo suo sincero amore verso de loro. Risposero per le sue
dolci parole non saperli respondere. Con queste buone parole lo capitano condusse lo re per la mano
sul tribunale per battizzarlo, e disseli se chiameria don Carlo, como a l’imperatore suo signore; al re
de Mazana Gioanni; a uno principale Fernando, come il principale nostro, cioè lo capitano; al Moro
Cristoforo; poi a li altri a chi uno nome, a chi uno altro.
Foreno battizzati innanzi messa cinquecento uomini. Udita la messa, lo capitano convitò a
disnar seco lo re con altri principali: non volsero; ne accompagnarono fino a la riva, le navi
scaricarono tutte le bombarde; e abbracciandose presero commiato.
Dopo disnare el prete e alcuni altri andassemo in terra per battezzar la regina, la quale venne
con quaranta dame. La conducessemo sopra lo tribunale, facendola sedere sovra un cuscino, e l’altre
circa ella, fin che ‘l prete s’apparò. Le mostrai una immagine de la Nostra Donna, uno bambino di
legno bellissimo e una croce: per il che le venne una contrizione che, piangendo, domandò lo
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battesimo. La nominassemo Giovanna, come la madre dello imperatore; sua figliola, moglie al
principe, Caterina; la reina de Mazana Lisabetta; a le altre ognuna lo suo nome.
Battezzassemo ottocento anime fra uomini, donne e fanciulli. La regina era giovane e bella,
tutta coperta d’uno panno bianco e nero: aveva la bocca e le onghie rossissime; in capo uno cappello
grande de foglie de palma a modo de solana con una corona incirca de le medesime foglie, como
quello del Papa: nè mai va in alcuno loco senza una de queste. Ne domandò il Bambino per tenerlo
in loco de li suoi idoli; e poi se partì sul tardi. Il re e la reina con assaissime persone venerono al
lido. Lo capitano allora fece tirare molte trombe de foco e bombarde grosse, per il che pigliarono
grandissimo piacere. El capitano e lo re se chiamavano fratelli: questo re si chiamava rajà Humabon.
Innanzi passassero otto giorni furono battizzati tutti de questa isola, e de le altre alcuni.
Brusassemo una villa, per non volere obbedire al re, nè a noi, la quale era in un’isola vicina a questa.
Ponessemo quivi la croce, perchè questi popoli erano Gentili. Se fossero stati Mori li avessemo
posto una collana in segno di più durezza, perchè li Mori sono assai più duri per convertirli, che a li
Gentili.
In questi giorni lo capitano generale andava ogni dì in terra per udire messa e diceva al re
molte cose della fede. La regina venne un giorno, con molta pompa, per udire la messa. Tre donzelle
li andavano dinnanzi con tre de li sui cappelli in mano: ella era vestita de negro e bianco, con uno
velo grande de seta, traversato con liste de oro, in capo, che li copriva le spalle, e con il suo
cappello. Assaissime donne la seguivano, le quali erano tutte nude e discalze, se non [che] intorno
alle parte vergognose havevano uno paniocolo de tela de palma e attorno lo capo uno velo piccolo e
tutti li capelli sparsi. La regina, fatta la reverenza a l’altare, sedette sopra uno cuscino lavorato di
seta. Innanzi se comenzasse la messa, il capitano la bagnò con alcune sue dame de acqua rosa
muschiata: molto se dilettavano de tale odore. Sapendo lo capitano che ‘l Bambino molto piaceva a
la reina, gliel donò e le disse lo tenesse in loco de li sui idoli, perchè era in memoria del figlio di
Dio. Ringraziandolo molto, lo accettò.
Uno giorno lo capitano generale, innanzi messa, fece venire lo re vestito con la sua vesta de
seta e li principali de la città. Il fratello del re, padre del principe, se chiamava Bendara, un altro
fratello del re, Cadaio, e alcuni Simiut, Sibnaia, Sicacai, e Maghelibe, e molti altri che lascio, per
non esser longo. Fece tutti questi giurare obbedienza al suo re, e li basarono la mano; poi fece che ‘l
re [giurasse] d’essere sempre obbediente e fedele al re de Spagna: così lo giurò. Allora il capitano
cavò la sua spada, innanzi l’immagine de Nostra Donna, e disse al re [che] quando cosi se giurava,
più presto doveriasi morire che a rompere un simile giuramento: sicchè ‘l giurava per questa
immagine, per la vita de lo imperatore suo signore e per il suo abito, d’esserli sempre fedele.
Fatto questo, lo capitano donò al re una cattedra de velluto rosso, dicendoli [che] dovunque
andasse, sempre la facesse portare dinanzi da uno suo propinquo, e mostròli come la si doveva
portare. Respose lo farebbe volontier, per amore suo, e disse al capitano como faceva fare una gioia
per donarlila, la qual era due schione d’oro grande per taccare a le orecchie, due per mettere a li
brazi, sovra li gomiti, e due altre per porre a li piedi, sovra le calcagne, e altre pietre preziose per
adornare le orecchie. Questi sono li più belli adornamenti [che] possono usare li re de queste bande,
li quali sempre vanno descalzi, con uno panno de tela da la cinta fino al ginocchio.
Il capitano generale uno giorno disse al re e a li altri per qual cagione non brusavano li suoi
idoli, come li avevano promesso, essendo Cristiani, e perchè se li sacrificava tanta carne. Resposero
[che] quel che facevano non lo facevano per loro, ma per uno infermo, acciò li idoli li dasse la
salute, lo quale non parlava già [da] quattro giorni. Era fratello del principe e lo più valente e savio
de la isola. Lo capitano gli disse che brusassero li idoli e credesseno in Cristo: e se l’infermo se
battizzasse, subito guarirebbe; e se ciò non fosse, gli tagliassero lo capo. Allora rispose lo re [che] lo
farebbe, perchè veramente credeva in Cristo. Facessemo una processione da la piazza fino a la casa
de lo infermo, al meglio potessemo, ove lo trovassemo che non poteva parlare nè moverse. Lo
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battezzassemo con due sue mogliere e X donzelle. Poi lo capitano gli fece dire come stava: subito
parlò e disse come per la grazia de Nostro Signore stava assai bene.
Questo fu uno manifestissimo miracolo nelli tempi nostri. Quando lo capitano lo udì parlare,
rengraziò molto Iddio: e allora li fece bevere una mandolata, che già l’aveva fatta fare per lui: poi
mandógli uno matarazzo, uno paro de lenzoli, una coperta de panno giallo e uno cuscino: e ogni
giorno, finchè fu sano, li mandò mandolati, acqua rosa, olio rosato e alcune conserve de zuccaro.
Non stette cinque giorni, che ‘l cominciò a andare: fece brusare uno idolo, che tenevano ascoso certe
vecchie in casa sua, in presenza del re e tutto lo popolo. E fece disfare molti tabernacoli per la riva
del mare, ne li quali mangiavano la carne consacrata. Loro medesimi gridando Castiglia! Castiglia!
li rovinavano; e disseno, se Dio li prestava vita, brusarebbeno quanti idoli potesse[ro] trovare, e se
bene fossero ne la casa del re.
Questi idoli sono de legno, concavi, senza le parti de dietro; hanno li brazzi aperti e li piedi
voltati in suso, con le gambe aperte e lo volto grande, con quattro denti grandissimi come porci
cingiari e sono tutti depinti.
In questa isola sono molte ville, li nomi de le quali e de li suoi principali sono questi:
Cinghapola: li sui principali Cilaton, Cigubacan, Cimaningha, Cimatighat; Cimabul: una Mandani;
il suo principale Apanovan: una Lalan, il suo principale Theten; una Lalutan, il suo principale Iapan,
una Cilumai e un’altra Lubucun. Tutti questi ne obbedivano e ne davano vittuaglia e tributo.
Appresso questa isola de Zubu ne era una, che se chiama Matan, la qual faceva lo porto, dove
èramo. Il nome de la sua villa era Matan, li sui principali Zula e Cilapulapu. Quella villa, che
brusassemo, era in questa isola, e se chiamava Bulaia.
Acciò che Vostra illustrissima signoria sappia le cerimonie, che usano costoro, in benedire lo
porco: primamente sonano quelle borchie grandi: poi se porta tre piatti grandi, due con rose e fogace
de riso e miglio, cotte e rivolte in foglie, con pesce brustolato; l’altro con panni de Cambaia e due
bandierette di palma. Uno panno de Cambaia se distende in terra: poi veneno due femmine
vecchissime, ciascuna con un trombone di canna in mano. Quando sono montate sul panno, fanno
reverenza al sole, poi se vestono con li panni. Una si pone un fazzolo ne la fronte con dui corni e
piglia un altro fazzolo ne le mani, e ballando e sonando con quello, chiama il sole: l’altra piglia una
di quelle bandierette e suona col suo trombone. Ballano e chiamano così un poco, fra sè dicendo
molte cose al sole. Quella del fazzolo piglia l’altra bandieretta e lascia lo fazzolo; e ambedue
sonando con li tromboni gran pezzo ballano intorno lo porco legato. Quella de li corni sempre parla
tacitamente al sole, e quella altra risponde. Poi a quella de li corni li è presentato una tazza de vino,
e ballando e dicendo certe parole e l’altra rispondendoli, e facendo vista quattro o cinque volte de
bevere el vino, sparge quello sovra el core del porco, poi subito torna a ballare. A questa medesima
vien dato una lancia; lei vibrandola e dicendo alquante parole, sempre tutte due ballando e
mostrando quattro o cinque volte de dare con la lancia nel core del porco, con una subita prestezza
lo passa da parte a parte. Presto si serra la ferita con erba. Quella che ha [am]mazzato il porco,
ponendosi una torcia accesa in bocca, la smorza, la quale sta sempre accesa in questa cerimonia:
l’altra col capo del trombone, bagnandolo nel sangue de porco, va [in]sanguinando con lo suo dito la
fronte prima a li suoi mariti, poi a li altri; — ma non venerono mai a noi; — poi se disvesteno e
vanno a mangiare quelle cose che sono ne li piatti, e convitano se non femmine.
Lo porco se pela con lo fuoco. Sicchè nissuno altro, che le vecchie, consacrano la carne di
porco; e non la mangiariano, se non fosse morto de quella sorte.
Questi popoli vanno nudi; portano solamente uno pezzo de tela de palme attorno le sue
vergogne. Grandi e piccoli hanno passato il suo membro, circa de la testa, da l’una parte all’altra con
uno ferro de oro, ovvero de stagno, grosso come una penna de oca, e in uno capo e l’altro del
medesimo ferro alcuni hanno come una stella, con punte sovra li capi, altri como una testa de chiodo
da carro. Assaissime volte lo volsi vedere da molti, così vecchi come giovani, perchè non lo poteva
credere. Nel mezzo del ferro è un buso per il quale urinano; il ferro e le stelle sempre stanno ferme.
Loro dicono che le sue moglie voleno così, e, se fossero d’altra sorte, non usariano con elli. Quando
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questi voleno usare con le femmine, loro medesime lo pigliano non in ordine, e cominciano pian
piano a mettersi dentro prima quella stella de sovra e poi l’altra. Quando è dentro, diventa in ordine,
e così sempre sta dentro fin che diventa molle, perchè altramente non lo porriano cavare fuora.
Questi popoli usano questo, perchè sono de debile natura.
Hanno quante moglie voleno, ma una principale. Se uno dei nostri andava in terra, così come
de dì come de notte, ognuno lo convitava perchè mangiasse e bevesse. Le sue vivande sono mezze
cotte e molto salate; bevono spesso e molto con quelli sui cannuti da li vasi; e dura cinque o sei ore
uno suo mangiare. Le donne amavano assai più noi che questi. A tutte, da sei anni in su, li aprono la
natura a poco a poco per cagion de quelli suoi membri.
Quando uno de li suoi principali è morto, li usano queste cerimonie: primamente tutte le
donne principali de la terra vanno a la casa del morto: in mezzo de la casa sta lo morto in una cassa:
intorno la cassa poneno corde, a modo d’uno steccato, ne le quali attaccano molti rami de arbore. In
mezzo de ogni ramo è uno panno di bombaso a guisa di paviglione, sotto li quali sedeano le donne
più principali, tutte coperte de panni bianchi de bombaso, con una donzella per ogni una, che le
faceva vento con uno sparaventolo di palma; le altre sedeano intorno la camera meste; poi era una
che tagliava a poco a poco con uno coltello li capelli al morto: un’altra, che era stata la moglie
principale del morto, giaceva sovra lui e giungeva la sua bocca, le sue mani e li sui piedi con quelli
del morto. Quando quella tagliava li capelli, questa piangeva, e quando restava di tagliarli, questa
cantava. Attorno la camera erano molti vasi de porcellana con fuoco, e sopra quello, mirra, storace e
belgiovì, che facevano olere la casa grandemente. Lo teneno in casa cinque o sei giorni con queste
cerimonie — credo sia unto de canfora —; poi lo seppellisseno con la medesima cassa, serrata con
chiodi de legno, in uno luogo coperto e circondato da legni.
Ogni notte in questa città, circa de la mezza notte, veniva uno uccello negrissimo, grande
come uno corvo, e non era così presto ne le case che ‘l gridava: per il che tutti li cani urlavano: e
durava quattro o cinque ore quel suo gridare e urlare. Non ne volseno mai dire la cagione de questo.
Venere, a ventisei de aprile, Zula, principale de quella isola Matan, mandò uno suo figliuolo
con due capre a presentarle al capitano generale e dicendoli come li mandava tutta sua promessa, ma
per cagion de l’altro principale, Celapulapu, che non voleva obbedire al re di Spagna, non aveva
potuto mandargliela: e che ne la notte seguente li mandasse solamente uno battello pieno de uomini,
perchè lui li aiutaria e combatteria. Lo capitano generale deliberò de andarvi con tre battelli. Lo
pregassemo molto non volesse vegnire, ma lui, come bon pastore, non volse abbandonare lo suo
gregge. A mezza notte se partissemo sessanta uomini armati de corsaletti e celate, insieme al re
cristiano, li principi e alcuni magistri, e venti o trenta [dei] balangai, e tre ore innanzi lo giorno
arrivassemo a Matan. Lo capitano non volse combatter allora; ma li mandò a dire, per lo Moro, che
se volevano obbedire al re di Spagna e recognoscere lo re cristiano per suo signore e darne lo nostro
tributo, li sarebbe amico: ma, se volevano altramente, aspettasseno come ferivano le nostre lance.
Risposero [che] se avevamo lance, [loro] avevano lance de canne brustolate e pali brustolati, e che
non andassimo allora ad assaltarli, ma aspettassemo [che] venisse lo giorno, perchè sarebbono più
gente.
Questo dicevano, a ciò [che] andassemo a ritrovarli, perchè avevano fatto certi fossi tra le case
per farne cascar dentro. Venuto lo giorno, saltassemo ne l’acqua fino alle cosce quarantanove
uomini; e così andassimo più di due tratti di balestra innanzi [che] potessimo arrivar al lito. Li
battelli non poterono venire più innanzi per certe pietre che erano nell’acqua. Li altri undici uomini
restarono per guardia de li battelli. Quando arrivassemo in terra, questa gente avevano fatto tre
squadroni de più de millecinquecento persone. Subito, sentendone, ne venirono addosso con voci
grandissime, due per fianco e l’altro per contro. Lo capitano, quando viste questo, ne fece due parti e
così cominciassemo a combattere. Li schioppettieri e balestrieri tirarono da lungi quasi mezza ora
invano, solamente passandoli li targoni fatti de tavole sottili e li brazzi. Lo capitano gridava “non
tirare, non tirare”, ma non li valeva niente. Quando questi visteno che tiravamo li schioppetti
invano, gridando deliberarono a star forte, ma molto più gridavano. Quando erano descaricati li
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schioppetti, mai non stavano fermi, saltando de qua e de là: coperti con li sui targoni ne tiravano
tante frecce, lance de canna (alcune de ferro al capitano generale), pali pontini brustolati, pietre e lo
fango, [che] appena se potevamo defendere.
Vedendo questo, lo capitano generale mandò alcuni a brusare le sue case per spaventarli.
Quando questi visteno brusare le sue case, diventarono più feroci. Appresso de le case furono
ammazzati due de li nostri, e venti, o trenta case li brusassemo; ne venirono tanti addosso, che
passarono con una frezza venenata la gamba dritta al capitano: per il che comandò che se
retirassimo a poco a poco: ma loro fuggirono, sicchè restassimo da sei o otto con lo capitano.
Questi non ne tiravano in altro, se non a le gambe, perchè erano nude. Per tante lancie e pietre
che ne traevano non potessemo resistere. Le bombarde de li battelli, per esser troppo lungi non ne
potevano aiutare; sì che venissemo retirandosi più de una buona balestrata lungi dalla riva, sempre
combattendo ne l’acqua fino al ginocchio. Sempre ne seguitorno e ripigliando una medesima lancia
quattro o sei volte, ne la lanciavano. Questi, conoscendo lo capitano, tanti se voltorono sopra de lui,
che due volte li buttarono lo celadone fora del capo; ma lui, come buon cavaliero, sempre stava
forte. Con alcuni altri più de una ora così combattessemo e, non volendosi più ritirare, uno Indio li
lanciò una lanza de canna nel viso. Lui subito con la sua lancia lo ammazzò e lasciogliela nel corpo;
volendo dar di mano alla spada, non potè cavarla, se non mezza per una ferita de canna [che] aveva
nel brazzo. Quando visteno questo tutti andorono addosso a lui: uno con un gran terciado (che è
como una scimitarra, ma più grosso), li dette una ferita nella gamba sinistra, per la quale cascò col
volto innanzi. Subito li furono addosso con lancie de ferro e de canna e con quelli sui terciadi, fin
che lo specchio, il lume, el conforto e la vera guida nostra ammazzarono.
Quando lo ferivano, molte volte se voltò indietro per vedere se èramo tutti dentro ne li battelli:
poi, vedendolo morto, al meglio [che] potessemo, feriti, se ritrassemo a li battelli, che già se
partivano. Lo re cristiano ne avrebbe aiutato, ma lo capitano, innanzi [che] desmontassimo in terra,
gli commise [che] non si dovesse partire dal suo balangai e stesse a vedere in che modo
combattevamo. Quando lo re seppe come era morto, pianse.
Se non era questo povero capitano, niuno de noi si salvava ne li battelli, perchè, quando lui
combatteva, gli altri si salvavano ne li battelli.
Spero in Vostra signoria illustrissima [che] la fama di uno sì generoso capitano non debba
essere estinta ne li tempi nostri. Fra le altre virtù, che erano in lui, era lo più costante in una
grandissima fortuna che mai alcuno altro fosse al mondo: sopportava la fame più che tutti gli altri, e
più giustamente che uomo fosse al mondo carteava e navigava, e, se questo fu il vero, se vede
apertamente, niuno altro avere avuto tanto ingegno nè ardire di saper dare una volta al mondo come
già quasi lui aveva dato. Questa battaglia fu fatta al sabato ventisette de aprile 1521 (il capitano la
volse fare in sabato, perchè era lo giorno suo devoto), ne la quale foreno morti con lui otto de li
nostri e quattro Indii, fatti cristiani, da le bombarde de li battelli, che erano dappoi venuti per
aiutarne; e de li nemici se non quindici, ma molti de noi feriti.
Dopo disnare lo re cristiano mandò a dire con lo nostro consentimento a quello de Matan, se
ne volevano dare lo capitano con li altri morti, che li daressimo quanta mercadanzia volessero.
Risposero [che] non se dava un tale uomo, como pensavamo, e che non lo darebbono per la maggior
ricchezza del mondo: ma lo volevano tenere per memoria sua.
Subito che fo morto lo capitano, quelli quattro che stavano nella città per mercadantare, fecero
portare le nostre mercanzie alle navi. Poi facessimo dui governatori, Duarte Barbosa, portoghese,
parente del capitano e Giovan Serrano, spagnolo. L’interprete nostro, che se chiamava Enrique, per
essere uno poco ferito non andava più in terra per fare le cose nostre necessarie, ma stava sempre ne
la schiavina. Per il che Duarte Barbosa, governatore de la nave capitana, li gridò e dissegli [che],
sebbene è morto lo capitano suo signore, per questo non era libero; anzi voleva, quando fossimo
arrivati in Ispagna [che] sempre fosse schiavo de madonna Beatrice, moglie del capitano generale, e
minacciandolo [che], se non andava in terra, lo frusteria. Lo schiavo si levò e mostrò de non far
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conto di queste parole, e andò in terra a dire al re cristiano come se volevano partire presto; ma, se
lui voleva fare a suo modo, guadagneria le nave e tutte le nostre mercadanzie; e così ordinorono uno
tradimento. Lo schiavo ritornò alla nave e mostrò essere più facente de prima.
Mercole mattina, primo de maggio, lo re cristiano mandò a dire a li governatori, come erano
preparate le gioie, [che] aveva promesso de mandare al re de Spagna, e che li pregava con li altri
suoi andassero [a] disnar seco quella mattina, che li le darebbe. Andorono 24 uomini in terra. Con
questi andò lo nostro astrologo, che se chiamava San Martin de Seviglia. Io non li potei andare,
perchè era tutto enfiato per una ferita de frezza velenata che aveva ne la fronte. Giovan Carvaio con
lo barizello tornorono indietro e ne dissero come visteno colui [che era stato] resanato per miracolo
menare lo prete a casa sua, e per questo s’erano partiti; perchè dubitavano de qualche male. Non
dissero così presto le parole, che sentissemo grandi gridi e lamenti. Subito levassemo l’ancore; e
tirando molte bombarde ne le case se appropinquassemo più a la terra: e così tirando, vedessemo
Giovan Serrano, in camisa, legato e ferito, gridare non dovessimo più tirare, perchè
l’ammazzerebbono. Li domandassemo se tutti gli altri con lo interprete erano morti: disse [che] tutti
erano morti, salvo l’interprete. Ne pregò molto lo dovessemo rescattare con qualche mercadanzia:
ma Gioan Carvaio, suo compare, non volsero per restare loro padroni, andasse lo battello in terra.
Ma Gioan Serrano, pur piangendo, ne disse che non averessemo così presto fatto vela, che
l’averiano ammazzato e disse che pregava Iddio [che], nel giorno del giudizio, dimandasse l’anima
sua a Gioan Carvaio, suo compare. Subito se partissemo; non so se morto o vivo lui restasse.
In questa isola se trova cani, gatti, riso, miglio, panico, sorgo, zenzero, fichi, naranzi, limoni,
canne dolci, aglio, miel, cocchi, chiacare, zucche, carne de molte sorte, vino de palma e oro: è
grande isola con un buon porto che ha due entrate, una al ponente, l’altra al greco e levante. Sta de
latitudine al polo Artico in X gradi de longitudine dalla linea de la ripartizione centosessantaquattro
gradi e se chiama Zubu. Quivi, innanzi che morisse lo capitano, avessimo nova de Maluco. Questa
gente sonano de viola con corde de rame.
VOCABOLI DE QUESTI POPOLI GENTILI
All’uomo = lac
A la donna = paranpoan
A la giovane = beni beni
A la maritata = babay
A li capelli = bo ho
Al viso = guay
A le palpebre = pilac
A le ciglie = chilei
A l’occhio = matta
Al naso = ilon
A le mascelle = apin
A li labbri = olol
A la bocca = baba
A li denti = nipin
A le gengive = leghex
A la lingua = dilla
A le orecchie = delengan
A la gola = liogh
Al collo = tangip
Al mento = cheilan
A la barba = bonghot
A le spalle = bagha
A la schiena = licud
Al petto = dughan
Al corpo = tiam
Sotto li bracci = ilot
Al braccio = botchen
Al gomito = sico
Al polso = molangai
A la mano = camat
A la palma de la mano = palan
Al dito = dudlo
A la unghia = coco
All’ombelico = pusut
Al membro = utin
A li testicoli = boto
A la natura delle donne = billat
All’usar con loro = tiam
A le culatte = samput
A la coscia = paha
Al ginocchio = tuhad
A lo stinco = bassag bassag
A la polpa della gamba = bitis
A la caviglia = bolbol
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Al calcagno = tiochid
A la suola del piè = lapa lapa
All’oro = balaoan
All’argento = pilla
Al laton = concach
Al ferro = butan
Alle canne dolci = tube
Al cuchiaro = gandan
Al riso = bughax baras
Al miele = deghex
A la cera = talho
Al sale = acin
Al vino = tuba nio nipa
Al bere = minuncubil
Al mangiare = macan
Al porco = babui
A la capra = candin
A la gallina = monoch
Al miglio = humas
Al sorgo = batat
Al panico = dana
Al pevere = manissa
A li garofoli = chianche
A la cannella = mana
Al zenzero = luia
A l’aglio = laxuna
A li naranzi = achua
All’ovo = silog
Al cocco = lubi
A l’aceto = zucha
A l’acqua = tubin
Al fuoco = claio
Al fumo = assu
Al soffiare = tigban
Alle bilance = tinban
Al peso = tahil
A la perla = mutiara
A la madre de le perle = tipai
Al male de santo Job = alupalan
Pòrtame = palatin comorica
A certe focacce de riso = tinapai
Buono = maiu
Non = tidale
Al coltello = capol sundan
A le forbici = catle
A tosare = chuntich
All’uomo ben ornato = pixao
A la tela = bulandan
A li panni che se coprono = abaca
Al sonaglio = colon colon
A li paternostri d’ogni sorte = tacle
Al pettine = cutlei missamis
Al pettinare = monsugud
A la camicia = sabun
A la gugia de cusire = dagu
Al cucire = mamis
A la porcellana = moboluc
Al cane = aian ydo
Al gatto = epos
A li sui veli = ghapas
A li cristallini = balus
Vien qui = marica
A la casa = ilaga balai
Al legname = tatamue
A le store dove dormeno = taghichan
A le store de palme = bani
A li cuscini de foglie = uliman
A li piatti de legno = dulan
Al suo Iddio = Abba
Al Sole = adlo
A la luna = songhot
A le stelle = bolan burthun
A la aurora = mone
A la mattina = vema
A la tazza = tagha
Grande = bassal
A l’arco = bossugh
A la frezza = oghon
A li targoni = calassan
A le vesti imbottite per combatter = baluti
A li suoi terziadi = campilan
A le sue daghe = calix baladao
A la lancia = bancan
A li fichi = haghin
A le zucche = baghin
El sale = tuan
A le corde de le sue viole = gatzap
Al fiume = tau
Al rezzaglio per pescare = pucat laia
Al battello = sanpan
A le canne grandi = canaghan
A le piccole = bonbon
A le sue barche grandi = balanghai
A le sue barche piccole = boloto
A li granchi = cuban
Al pesce = isam yssida
A un pesce tutto dipinto = panap sapan
A un altro rosso = timuan
A un certo altro = pilax
A un altro = emalvan
Tutto e uno = siama siama
A uno schiavo = bonsul
A la forca = bolli
A la nave = benaoa
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A uno re o capitano generale = raià.
NUMERI
Uno = uzza
Due = dua
Tre = tolo
Quattro = upat
Cinque = lima
Sei = onom
Sette = pitto
Otto = qualu
Nove = siam
Dieci = polo.
Lungi disdotto leghe de questa isola Zubu, al capo de quell’altra, che se chiama Bohol,
brusassemo in mezzo de questo arcipelago la nave Conceptione per essere restati troppo pochi e
fornissemo le altre due de le cose sue migliore. Pigliassemo poi la via del garbin e mezzodì
costando la isola, che se dice Panilonghon, nella quale sono uomini negri, come sono in Etiopia. Poi
arrivassemo a una isola grande, lo re della quale per far pace con noi se cavò sangue de la mano
sinistra, sanguinandose lo corpo, lo volto e la cima della lingua in segno de maggior amicizia. Così
facessemo anche noi. Io solo andai con lo re in terra per vedere questa isola. Subito che entrassimo
in uno fiume, molti pescatori presentarono pesce al re; poi lo re se cavò li panni, che aveva intorno
le sue vergogne, con alcuni suoi principali, e cantando cominciorono a vogare, passando per molte
abitazioni, che erano sovra lo fiume. Arrivassemo a due ore de notte in casa sua. Dal principio de
questo fiume, dove stavano le navi, fino a la casa del re erano due leghe.
Entrando ne la casa ne venirono incontro [con] molte torce de canna e de foglie de palma.
Queste torce erano de anime, come detto de sovra. Finchè se apparecchiò la cena, lo re con dui
principali e due sue femmine belle beverono uno gran vaso de vino pieno, de palma, senza mangiare
niente. Io, escusandomi avere cenato, non volsi bere se non una volta. Bevendo, facevano tutte le
cerimonie come el re de Mazana.
Venne poi la cena di riso e pesce molto salato, posto in scodelle de porcellana. Mangiavano lo
riso per pane. Cociono lo riso in questo modo: prima mettono dentro in pignatte de terra come le
nostre una foglia grande, che circunda tutta la pignata; poi li mettono l’acqua e il riso coprendola: la
lasciano bollire fin che viene lo riso duro come pane; poi la cavano fuora in pezzi. In tutte queste
parti cociono lo riso in questa sorte.
Cenato che avessemo, lo re fece portare una stora de canne con un’altra de palme e uno
cuscino de foglie, acciò io dormisse sovra queste. Il re con le due femmine andò a dormire in uno
luoco separato: dormì con uno suo principale. Venuto il giorno, mentre si apparecchiò lo disnare,
andai per questa isola. Vidi in queste loro case assai masserizie de oro e poca vettovaglia. Poi
disnassimo riso e pesce. Finito lo disnare, dissi al [re] con segni [che] vederia la regina: me rispose
[che] era contento. Andassemo de compagnia in cima de uno alto monte, dove era la casa della
reina. Quando entrai in casa, le feci la reverenza e lei così verso de me; sedetti appresso a ella, la
quale faceva una stora de palma, per dormire. Per la casa sua erano attaccati molti vasi de porcellana
e quattro borchie de metallo, una maggiore dell’altra e due più piccole, per sonare. Gli erano molti
schiavi e schiave, che la servivano.
Queste case sono fatte come le altre già dette. Pigliata licenza, tornassemo in casa del re.
Subito fece darne una colazione de canne dolce. La maggior abbondanza che sia in questa isola è de
oro: mi mostrarono certi valloni, facendomi segno che in quelli era tanto oro come li sui capelli, ma
non hanno ferro per cavarlo, nè anche voleno quella fatica.
Questa parte de la isola è una medesima terra con Butuan e Calogan e passa sopra Bohol e
confina con Mazana. Perchè torneremo una altra fiata in questa isola, non dico altro.
Passato mezzodì, volsi tornare a le navi; el re volse venire li altri principali; e così venissemo
nel medesimo balangai. Retornando per lo fiume, vidi, a man dritta, sopra un monticello tre uomini
appiccati a uno arbore, che aveva tagliati li rami. Domandai al re chi erano quelli; respose che erano
malfattori e robatori. Questi populi vanno nudi come li altri de sopra. Lo re se chiama raià Calanao.
El porto è buono: e quivi se trova riso, zenzero, porci, capre, galline e altre cose. Sta de latitudine al
polo Artico in 8 gradi e 167 de longitudine della linea ripartizionale, e longi de Zubu cinque leghe e
se chiama Chipit. Due giornate de qui, al maestrale, se trova una isola grande detta Lozon, dove
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vanno ogni anno sei, ovver otto giunche de li popoli Lechii.
Partendone de qui a la mezza partita de ponente e garbin, dessemo in una isola non molto
grande e quasi disabitata. La gente de questa sono Mori e erano banditi d’una isola detta Burne.
Vanno nudi come li altri: hanno zarabotane con li carcassetti a lato piene di frezze e con erba
venenata; hanno pugnali con li manichi ornati de oro e de pietre preziose; lancie, rodelle e corazzine
de corno de bufalo. Ne chiamavano corpi santi. In questa isola se trova poca vettovaglia, ma arbori
grandissimi. Sta de latitudine al polo Artico in 7 gradi e mezzo lungi da Chippit quarantatre leghe; e
chiamase Caghaian.
A quest’isola, circa de venticinque leghe tra ponente e maestrale, trovassemo una isola grande,
dove si trova riso, zenzero, porci, capre, galline, fichi longhi mezzo braccio e grossi come lo braccio
— sono buoni e alcuni altri, longhi un palmo e altri manco, molto migliori de tutti li altri — cocchi,
batate, canne dolci, radici come rapi al mangiare, e riso cotto sotto lo fuoco in canne o in legno.
Questa terra potevamo chiamare la terra de promissione, perchè innanzi [che] la trovassimo
pativamo gran fame. Assai volte stessemo in forse se abbandonare le navi e andare in terra, per non
morire de fame. Lo re fece pace con noi, tagliandose un poco con uno nostro coltello in mezzo del
petto, e sanguinando se toccò la lingua e la fronte in segno di più vera pace: così fecemo anche noi.
Questa isola sta de latitudine al polo Artico in 9 gradi e uno terzo, e cento e settantauno e uno terzo
de longitudine de la linea [di] ripartizione [e si chiama] Pulaoan.
Questi popoli de Pulaoan vanno nudi come li altri. Quasi tutti lavorano li sui campi: hanno
cerebottane con frezze de legno grosse più d’un palmo, arpionate e alcune con spine de pesce con
erba venenata e altre con punte de canne arpionate e venenate.
Hanno nel capo ficcato un poco de legno molle in cambio de le penne. Nel fine delle sue
cerebottane legano uno ferro, come di iannettone e, quando hanno tratte le frezze, combatteno con
questo.
Preziano anelli, catenelle di ottone, sonagli, coltelli, e più el filo de rame per legare li sui ami
da pescare. Hanno galli grandi molto domestici; non li mangiano per una certa sua venerazione:
alcuna volta li fanno combattere l’uno con l’altro; e ogni uno mette per lo suo un tanto, e poi de
colui, che è suo il vincitore, è suo il premio. E hanno vino de riso lambiccato più grande e megliore
di quello de palma.
Lungi da questa isola dieci leghe, al garbin, dessemo in un’isola e, costeandola, ne pareva
alquanto ascendere. Intrati nel porto, ne apparve el Corpo Santo per un tempo oscurissimo. Dal
principio de questa isola fino al porto vi sono cinquanta leghe. Lo giorno seguente, a nove de luglio,
lo re de questa isola ne mandò uno prao molto bello con la prora e la poppa lavorata de oro: era
sopra la prora una bandiera de bianco e azzurro con penne de pavone; in cima alcuni sonavano con
sinfonie e tamburi. Venivano con questo prao due almadie. Li prao sono come fuste e le almadie
sono le sue barche da pescare. Otto uomini vecchi de li principali entrorono ne le navi e sederono ne
la poppa sopra uno tappeto. Ne appresentarono un vaso de legno depinto, pieno de betre e areca, che
è quel frutto che masticano sempre, con fiori de gelsomini e de naranzi, coperto da uno panno de
seta giallo; due gabbie piene de galline, uno paro de capre, tre vasi pieni de riso lambiccato e
alquanti fasci de canne dolci — e così dettero a l’altra nave — e abbracciandone pigliarono licenza.
El vino de riso è chiaro come l’acqua, ma tanto grande che molti de li nostri s’embriacarono; e lo
chiamano arach.
De lì a sei giorni lo re mandò un’altra volta tre prao con molta pompa, sonando sinfonie,
tamburi e borchie de lattone. Circondorono le navi e ne fecero reverenza con certe sue berrette de
tela, che li coprono solamente la cima del capo. Li salutassemo con le bombarde senza pietre. Poi ne
dettero uno presente de diverse vivande solamente de riso: alcune in foglie fatte in pezzi alquanto
lunghi, alcune come pani di zuccaro e alcune fatte a modo de torte con ovi e miele. Ne dissero como
lo suo re era contento pigliassemo acqua e legna e contrattassemo al nostro piacere.
Udendo questo, montassemo sette de nui altri sopra lo prao e portassemo uno presente al re, el
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quale era una vesta de velluto verde a la turchesca, una cattedra de velluto morello, cinque braccia
de panno rosso, uno bonet, e uno bicchier dorato, uno vaso de vetro coperto, tre quinterni de carta e
uno calamaro dorato; a la regina tre braccia de panno giallo, uno paro de scarpe argentate, uno
gucchiarolo d’argento pieno de guggie; al governatore tre braccia de panno rosso, uno bonnet e uno
bicchier dorato; al re d’arme, che era venuto nelli prao, li dessemo una veste de panno rosso e verde
a la turchesca, uno bonnet e uno quinterno de carta: a li altri sette principali, a chi tela, a chi bonetti,
e a ognuno uno quinterno de carta: e subito se partissimo.
Quando giungessemo a la città, stessero forse due ore ne li prao, finchè venirono due elefanti
coperti de seta e dodici uomini con uno vaso per uno de porcellana coperto de seta per coprire [i]
nostri presenti: poi montassemo sopra gli elefanti, e questi dodici uomini andavano dinnanzi con li
presenti ne li vasi. Andassemo così fino a la casa del governatore, ove ne fu data una cena de molte
vivande. La notte dormissemo sovra materazzi de bambaso: la sua fodera era de taffetà; li lenzoli de
Cambaia.
Lo giorno seguente stessimo in casa fino a mezzodì: poi andassemo al palazzo del re sovra
elefanti, con li presenti dinnanzi, come lo giorno davanti, da casa del governatore fin in casa del re.
Tutte le strade erano piene de uomini con spade, lancie e targoni, perchè così aveva voluto lo re.
Intrassemo sovra li elefanti ne la corte del palazzo: andassemo su per una scala accompagnati
dal governatore e altri principali, e intrassemo in una sala grande, piena di molti baroni, ove
sedessemo sopra un tappeto, con li presenti ne li vasi appresso noi. Al capo de questa sala ne è
un’altra più alta, ma alquanto più piccola, tutta ornata de panni de seta, ove se aprivano due finestre
con due cortine de broccato, da le quali veniva la luce nella sala. Ivi erano trecento uomini in piede,
con stocchi nudi sovra la coscia, per guardia del re. Al capo de questa era una grande fenestra, da la
quale se tirò una cortina de broccato.
Dentro de questa vedessimo il re sedere a tavola con uno suo figlio piccolino e masticare
betre; dietro de lui erano se non donne. Allora ne disse uno principale [che] noi non potevamo
parlare al re; e se volevamo alcuna cosa, lo dicessemo a lui, perchè lo direbbe a uno più principale, e
quello a uno fratello del governatore, che stava nella sala più piccola, e poi lui lo direbbe con una
cerbottana, per una fessura della parete, a uno che stava dentro con lo re. E ne insegnò dovessemo
fare al re tre reverenzie con le mani gionte sopra lo capo, alzando li piedi, mo’ uno, mo’ l’altro, e poi
le basassemo. Così fu fatto. Questa è la sua reverenzia reale.
Gli dicessemo come èramo del re de Spagna e che lui voleva pace seco, e non domandavamo
altro, salvo potere mercadantare. Ne fece dire el re, [che] poichè il re di Spagna voleva essere suo
amico, lui era contentissimo de esser suo, e disse [che] pigliassemo acqua e legna e
mercadantassemo a nostro piacere. Poi li dessemo li presenti: faceva d’ogni cosa con lo capo un
poco de reverenzia.
A ciascuno de noi altri fu dato broccatello e panni de oro e de seta, ponendoli sopra la spalla
sinistra, ma poco lasciandonegli. Ne dettero una colazione de garofoli e cannella. Allora forono
tirate le cortine e serrate le fenestre.
Li uomini che erano nel palazzo, tutti avevano panni de oro e de seta intorno a le loro
vergogne, pugnali con lo manico de oro e ornati de perle e pietre preziose, e molti anelli ne le mani.
Ritornassemo sovra li elefanti a la casa del governatore: sette uomini portarono il presente del
re sempre dinnanzi.
Quando fossimo gionti a casa dereno a ognuno lo suo e ne ‘l misero sovra la spalla sinistra: a li
quali, per [la] sua fatica, donassemo a ciascheduno uno paro de coltelli. Venirono in casa del
governatore nove uomini con altri tanti piatti de legno grandi da parte del re. In ogni piatto erano X,
ovvero dodici scodelle de porcellana, piene de carne de vitello, de capponi, galline, pavoni e altri
animali, e de pesce. Cenassemo in terra, sovra una stora de palma, de trenta a trentadue sorte de
vivande de carne, eccetto lo pesce, e altre cose. Bevevamo a ogni boccone pieno uno vasetto de
porcellana, grande come uno ovo, de quel vino lambiccato: mangiassemo riso e altre vivande de
zuccaro con cucchiari d’oro come li nostri.
Ove dormissemo le due notti, stavano due torcie de cera bianca, sempre accese, sovra dui
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candelieri d’argento, un poco alti, e due lampade grande piene d’olio, con quattro pavèri per ogni
una, e dui uomini che sempre le spavillavano.
Venissemo sovra li elefanti sovra la riva del mare, dove furono dui prao, che ne condussero a
le navi.
Questa città è tutta fondata in acqua salsa, salvo la casa del re e alcune de certi principali; ed è
de venticinque mila fochi. Le case sono tutte de legno, edificate sopra pali grossi, alti da terra.
Quando lo mare cresce, vanno le donne per la terra con barche vendendo cose necessarie al suo
vivere. Dinnanzi la casa del re è uno muro de quadrelli grosso, con barbacani a modo de fortezza,
nel quale erano cinquantasei bombarde de metallo e sei de ferro. In li due giorni [che] stessemo ivi,
[ne] scaricarono molte.
Questo re è moro e se chiama Siripada. Era de quaranta anni e grasso. Niuno lo governa, se
non donne, figliuole de li principali. Non si parte mai fuora del palazzo, se non quando va a la
caccia: niuno gli può parlare, se non per cerbottane; tiene X scrivani, che scrivono le cose sue in
scorze de arbore molto sottili. A questi chiamano xiritoles.
Luni mattina, a ventinove di luglio, vedessimo venire contra noi più che cento prao, partiti in
tre squadroni, con altrettanti tunguli, che sono le sue barche piccole. Quando vedessimo questo,
pensando fosse qualche inganno, ne dessemo lo più presto possibile a la vela, e per pressa
lasciassemo una ancora. E molto più ne dubitavamo de essere tolti in mezzo da certe giunche, che
nel giorno passato restarono dopo noi.
Subito se voltassimo contro questi e ne pigliassimo quattro, ammazzando molte persone. Tre o
quattro giunche fuggirono in secco. In uno di quelli che pigliassimo era lo figliuolo del re della isola
di Lozon. Costui era capitano generale de questo re de Burne e veniva con queste giunche da una
villa grande, detta Laoc, che è in capo de questa isola verso Giava maggiore la quale, per non voler
obbedire a questo re, ma a quello de Giava Maggiore, la aveva ruinata e saccheggiata.
Giovan Carvajo, nostro piloto, lasciò andare questo capitano e la giunca senza nostro
consentimento per certa quantità de oro, come dappoi sapessimo. Se non lassava questo re, lo
capitano ne avaria dato tutto quello che avessemo domandato, perchè questo capitano era molto
temuto in queste parti, ma più dai Gentili, perciò [che] sono inimicissimi di questo re moro. In
questo porto c’è un’altra città de Gentili, maggiore di quella de li Mori, fondata anch’essa in acqua
salsa, per il che ogni giorno questi due popoli combattono insieme nel medesimo porto. Il re gentile
è potente come lo re moro, ma non tanto superbo; facilmente se convertirebbe a la fede de Cristo.
Il re moro, quando aveva inteso in che modo avevamo trattati li giunchi, ne mandò a dire, per
uno de li nostri che erano in terra, come li prao non venivano per farne dispiacere, ma andavano
contro li Gentili, e per verificazione di questo li mostrarono alcuni capi de uomini morti e li dissero
che erano de Gentili.
Mandassimo dire al re [che] li piacesse lasciare venire li nostri due uomini, che stavano ne la
città per contrattare, e lo figliolo de Giovan Carvaio, che era nasciuto ne la terra del Verzin; ma lui
non volse. De questo fo cagione Gioan Carvaio per lasciare quel capitano.
Retenessimo sedici uomini più principali per menarli in Ispagna e tre donne in nome de la
Regina di Spagna; ma Gioan Carvaio le usurpò per sue.
I giunchi sono le sue navi, e fatte in questo modo: lo fondo è circa due palmi sovra l’acqua e
[è] di tavole con caviglie di legno assai ben fatto: sopra di questo sono tutte di canne grossissime per
contrappeso: porta uno de questi tanta roba come una nave; li sui alberi sono de canne e le vele de
scorza de albero.
La porcellana sorte de terra bianchissima e sta cinquanta anni sotto terra innanzi [che] la si
adoperi, perchè altramente non saria fina. Lo padre la sotterra per lo figliolo. Se ‘l pone [veleno] in
un vaso de porcellana fino, subito si rompe.
La moneta che adoperano li Mori in questa parte è di metallo, sbusata nel mezzo per infilzarla,
ed ha solamente da una parte quattro segni, che sono lettere del gran re della China e la chiamano
picis.
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Per uno chatil de argento vivo che è due libbre delle nostre, ne davano sei scodelle de
porcellana: per uno quinterno de carta cento picis; per centosessanta chatili uno vasetto de
porcellana; per tre coltelli, uno vaso de porcellana; per 160 chatili de metallo un bahar de cera, che è
duecento e tre chatili; per ottanta chatili de metallo, uno bahar de sale; per quaranta chatili de
metallo, uno bahar de anime per conciar le navi, perchè in queste parte non si trovano pegola.
Venti tahil fanno un chatil. Quivi si apprezza metallo, argento vivo, vetro, cenaprio, panni de
lana, tele e tutte le altre nostre merci, ma più lo ferro e li occhiali. Questi Mori vanno nudi come li
altri; bevono l’argento vivo; lo infermo lo beve per purgarse, e lo sano per restare sano.
Il re de Burne ha due perle grosse come dui ovi de gallina, e sono tanto rotonde che non ponno
fermarse sopra una tavola; e questo so certo, perchè, quando li portassemo li presenti, gli fu fatto
segno ne le mostrasse; lui disse le mostrerebbe. L’altro giorno poi alcuni principali ne dissero loro
averle vedute.
Questi Mori adorano Maometto e la sua legge; non mangiar carne di porco; lavarsi il culo con
la mano sinistra; non mangiare con quella; non tagliare cosa alcuna con la destra; sedere quando
urinano; non ammazzare galline nè capre, se prima non parlano al sole; tagliare alle galline la cima
delle ali con le sue pellesine, che li avanzano de sotto, e poi i piedi, e poi squartarla per mezzo;
lavarse lo volto con la mano dritta; non lavarse li denti con li diti e non mangiare cosa alcuna
ammazzata se non da loro. Sono circoncisi come li Giudei.
In questa isola nasce la canfora, specie di balsamo, la quale nasce tra gli albori; e la scorza è
minuta come le cipolle. Se la se tiene discoperta, a poco a poco diventa niente; e la chiamano capor.
Lì nasce cannella, zenzero, mirabolani, naranci, limoni, chiacare, meloni, cocomeri, zucche, rafani,
cevolle, scarlogne, vacche, bufali, porci, capre, galline, oche, cervi, elefanti, cavalli e altre cose.
Questa isola è tanto grande, che si sta a circondarla con uno prao tre mesi; sta di latitudine al polo
Artico in cinque gradi e uno quarto e in cento e settantasei e due terzi de longitudine da la linea de
repartizione, e se chiama Burne.
Partendone da questa isola tornassemo indietro per trovare un luogo atto per conciare le navi,
perchè facevano acqua. Una nave, per poco vedere del suo piloto, dette in certi bassi d’una isola
detta Bibalon, ma con l’aiuto de Dio la liberassimo. Uno marinaro de quella nave, non
avvedendosene, despavillò una candela in un barile pieno de polvere de bombarda; subito la tolse
fora senza danno nissuno. Seguendo poi lo nostro cammino, pigliassemo uno prao pieno de cocchi,
che andava a Burne. Gli uomini fuggirono in un’isoletta. Finchè pigliassimo questo, tre altri
fuggirono de dietro da certe isolette.
Al capo de Burne, fra questa e una isola detta Cimbonbon, che sta in otto gradi e sette minuti,
è un porto perfetto per conciare navi, per il che entrassimo dentro, e per [non] avere troppo le cose
necessarie per conciare le navi, tardassemo quarantadue giorni.
In questi giorni ognuno de noi se affaticava, chi in una cosa, chi in un’altra; ma la maggior
fatica [che] avevamo, era andar a far legna ne li boschi senza scarpe. In questa isola son porci
selvatici; ne ammazzassemo uno di questi con lo battello ne l’acqua, passando de un’isola in un’altra,
lo quale aveva lo capo longo due palmi e mezzo e li denti grandi. Ci sono coccodrilli grandi, così de
terra come de mare, ostriche e cappe de diverse sorte. Fra le altre ne trovassemo due, la carne
dell’una pesò ventisei libbre, e l’altra quarantaquattro. Pigliassemo uno pesce, che aveva lo capo
come uno porco, con due corni: el suo corpo era tutto d’un osso solo; aveva sopra la schiena come
una sella ed era piccolo. Ancora qui se trova arbori che fanno le foglie, [che] quando cascano sono
vive e camminano. Quelle foglie sono, nè più nè meno, come quelle del moraro, ma non tanto
lunghe. Appresso il pegollo, da una parte e dall’altra, hanno due piedi; il pegollo è corto e pontino;
non hanno sangue, e chi le cocca, fuggono. Io ne tenni una nove giorni in una scatola. Quando la
apriva, questa andava intorno intorno per la scatola. Non penso viveno de altro se non de aria.
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Essendo partiti de questa isola, cioè del porto, nel capo de questa isola Pulaoan incontrassemo
uno giunco, che veniva da Burne, nel quale era lo governatore de Pulaoan. Li facessimo segno
ammainasse le vele e lui non volendo ammainare, lo pigliassemo per forza e lo saccheggiassimo. Se
il governatore volse esser libero, ne dette, in termine de sette giorni, quattrocento misure de riso,
venti porci, venti capre e centocinquanta galline; poi ne presentò cocchi, fichi, canne dolci, vasi de
vino de palma e altre cose. Vedendo noi la sua liberalità, gli rendessimo alcuni sui pugnali e
archibusi; poi li donassimo una bandiera, una vesta de damasco giallo e XV braccia de tela: a uno
suo figliolo una cappa de panno azzurro, e a un suo fratello del governatore una vesta de panno
verde e altre cose.
Se partissemo da lui come amici e tornassimo indietro, fra la isola de Cagaian e quel porto de
Chippit, pigliando lo cammino a la quarta del levante verso scirocco per trovare le isole de Maluco.
Passassemo per certi monticelli, circa de li quali trovassemo lo mare pieno de erbe con lo fondo
grandissimo. Quando passavamo per questi ne pareva entrare per un altro mare. Restando Chippit al
Levante, trovassemo due isole, Zolo e Taghima al ponente appresso de le quale nascono le perle. Le
due del re di Burne furono trovate quivi; e le ebbe, come ne fu riferito, in questo modo: Questo re
pigliò per moglie una figliuola del re di Zolo, la quale gli disse come suo padre aveva queste due
perle. Costui si deliberò averle in ogni modo. Andò una notte con cinquecento prao e pigliò lo re
con due suoi figliuoli e menolli a Burne. Se ‘l re de Zolo se volse liberare, li fu forza dargli le due
perle.
Poi al levante, quarta di greco, passassemo tra due abitazioni, dette Cavit e Subanin e una
isola abitata, detta Monoripa, lungi X leghe da li monticelli. La gente de questa hanno loro case in
barche e non abitano altrove. In quelle due abitazioni de Cavit e Subanin, le quali sono ne la isola de
Butuan e Calaghan, nasce la miglior cannella che si possa trovare. Se stavamo ivi due giorni, ne
caricavamo le navi; ma per avere buon vento e passare una punta e certe isolette, che erano circa de
questa, non volessemo tardare e, andando a la vela, barattassemo diciassette libbre per certi coltelli
[che] avevamo tolti al governatore de Pulaoan. L’albero de questa cannella è alto tre o quattro cubiti,
e grosso come li diti della mano, e non ha più di tre o quattro rametti; la sua foglia è come quella del
lauro; la sua scorza è la cannella. La se coglie due volte all’anno; così è forte lo legno e le foglie,
essendo verde, come la cannella. La chiamano caiumana; caiu vuol dire legno, e mana dolce, cioè
legno dolce.
Pigliando lo cammino al greco e andando a una città grande detta Maingdanao, la quale è
nell’isola di Baluan e Calaghan, acciò sapessemo qualche nova de Maluco, pigliassemo per forza
uno biguiday (è come uno prao) e ammazzassemo sette uomini. In questo erano solum dieciotto
uomini, disposti quanto alcuni altri vedessemo in questa parte, tutti de li principali di Maingdanao.
Fra questi uno ne disse che era fratello del re de Maingdanao e che sapeva dove era Maluco. Per
questo lassassemo la via del greco e pigliassemo la via de scirocco.
In un capo de questa isola Butuan e Caleghan, appresso de uno fiume, se trovano uomini
pelosi, grandissimi combattitori e arcieri; hanno spade larghe uno palmo; mangiano se non lo cuore
dell’uomo, crudo, con sugo de naranzi o limoni, e se chiamano Benajan, li pelosi.
Quando pigliassemo la via del scirocco, stavamo in sei gradi e sette minuti all’Artico e trenta
leghe lungi da Canit. Andando al scirocco trovassemo quattro isole: Ciboco, Beraham Batolach,
Saranghani e Candighar. Uno sabato, de notte, ne assaltò una fortuna grandissima per il che,
pregando Iddio, abbassassemo tutte le vele. Subito li tre nostri santi ne apparsero descacciando tutta
la scuritate. Sancto Elmo stette più de due ore in cima la gabbia, come una torcia; santo Nicolò in
cima de la mezzana, e santa Chiara sovra lo trinchetto. Promettessimo uno schiavo a santo Elmo, a
sancto Nicolò e a santa Chiara; gli dessemo a ognuno la sua elemosina.
Seguendo poi nostro viaggio, entrassimo in uno porto, in mezzo de le due isole, Saranghani e
Candighar, e ce fermassimo, al levante, appresso una abitazione de Saranghani, ove si trova oro e
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perle. Questi popoli sono Gentili e vanno nudi come li altri. Questo porto sta de latitudine in cinque
gradi e nove minuti e lungi cinquanta leghe da Canit.
Stando quivi un giorno, pigliassemo due piloti per forza, acciò ne insegnasseno Maluco.
Facendo nostro viaggio fra mezzo giorno e garbin, passassemo tra otto isole abitate e disabitate
poste in modo de una via, le quali si chiamano Cheana, Caniao, Cabiao, Camanuca, Cabaluzao,
Cheai, Lipan e Nuza finchè arrivassemo in una isola, posta in fine de queste, molto bella al vedere.
Per avere vento contrario e per non poter passare una punta de questa isola, andavamo de qua e de là
circa de ella, per il che uno de quelli [che] avevamo pigliati a Saranghani e lo fratello del re di
Maingdanao con un suo figliuolo piccolo, ne la notte, fuggirono notando in questa isola; ma il
figliuolo, per non poter tener saldo sovra le spalle de suo padre, se annegò. Per non poter cavalcare
la detta punta, passassemo de sotto de la isola, dove erano molte isolette.
Questa isola tiene quattro re; raià Matandatu, raià Lalagha, raià Bapti e raià Parabu: sono
Gentili. Sta in tre gradi e mezzo all’Artico e 27 leghe lungi da Saranghani; è detta Sanghir.
Facendo lo medesimo cammino passassimo circa sei isole, chiamate Carachita, Para,
Zanghalura, Cian, lontana circa dieci leghe da Sanghir (questa tiene uno monte alto, ma non largo;
lo suo re se chiama raià Ponto) e Paghinzara, lungi otto leghe da Cian, la quale ha tre montagne alte
(lo suo re se chiama raià Babintan); Talaut. Poi trovassemo al levante de Paghinzara, lungi dodici
leghe, due isole non molto grandi, dette Zoar e Mean.
Passate queste due isole, mercore, a sei di novembre, discopersemo quattro isole alte al
levante, lungi dalle due quattordici leghe. Lo piloto, che ne era restato, disse come quelle quattro
isole erano Maluco; per il che rengraziassimo Iddio e per allegrezza descaricassemo tutta la
artiglieria. Non era da meravigliarsi se éramo tanto allegri, perchè avevamo passato ventisette mesi,
manco due giorni in cercare Maluco.
Per tutte queste isole fin a Maluco il minor fondo [che] trovassemo era in cento e duecento
braccia; al contrario di come dicevano li Portoghesi, che quivi non si poteva navigare per li gran
bassi e il cielo oscuro, come loro se avevano immaginato.
Venere, a otto de novembre 1521, tre ore innanzi lo tramontare del sole, entrassemo in uno
porto d’una isola, detta Tadore e surgendo appresso terra in venti braccia descaricassemo tutta la
artiglieria. Nel giorno seguente venne lo re in uno prao a le navi e circondolle una volta. Subito li
andassimo [in] contra con lo battello per onorarlo: ne fece intrare ne lo suo prao e sedere presso de
sè. Lui sedeva sotto una ombrella de seta, che andava intorno: dinnanzi de lui era uno suo figliuolo
col scettro reale e due con due vasi de oro per dare acqua a le mani, e due altri con due cassettine
dorate piene de quello betre.
Lo re ne disse [che] fossimo li ben venuti e come lui già [da] gran tempo se aveva sognato
alquante navi venire a Maluco da luoghi lontani e, per più certificarsi, aveva voluto vedere ne la
luna; e vide come venivano e che noi éramo quelli. Entrando lo re nelle navi, tutti li baciarono la
mano; poi lo conducemmo sovra la poppa, e ne l’entrare dentro non se volse abbassare, ma entrò de
sovravia.
Facendolo sedere in una cattedra de velluto rosso, gli vestissemo una vesta de velluto giallo a
la turchesca; noi, per più suo onore, sedevamo in terra appresso lui. Essendo tutti assettati lo re
cominciò e disse: Lui e tutti suoi popoli volere sempre essere fedelissimi amici e vassalli al nostro re
di Spagna, e accettava noi come suoi figliuoli; e dovessemo discendere in terra come ne le proprie
case nostre, perchè de qui indietro [la] sua isola no se chiameria più Tadore, ma Castiglia, per
l’amore grande [che] portava al nostro re suo signore.
Li donassemo uno presente; qual fu la veste, la cattedra, una pezza de tela sottile, quattro
braccia de panno de scarlatto, uno saglio de broccato, uno panno de damasco giallo, alcuni panni
indiani lavorati de oro e de seta, una pezza de berania bianca, tela de Cambaia, dui bonetti, sei filze
de cristallo, dodici coltelli, tre specchi grandi, sei forbici, sei pettini, alquanti bicchieri dorati e altre
cose. Al suo figliuolo un panno indiano de oro e de seta, uno specchio grande, uno bonet e due
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coltelli; a nove altri sui principali, a ognuno un panno de seta, bonetti e due coltelli; e a molti altri, a
chi bonetti e a chi cartelli dessemo, in fin che ‘l re ne disse dovessimo restare.
Dopo ne disse lui non aver altro se non la propria vita per mandare al re suo signore, e
dovessemo noi più appropinquarse a la città, e, se veniva de notte a le navi, li ammazzassemo con li
schioppetti. Partendose de la poppa, mai se volse abbassare. Pigliata la licenza, discaricassemo tutte
le bombarde. Questo re è Moro, e forse de quarantacinque anni, ben fatto, con una presenza reale e
grandissimo astrologo. Allora era vestito d’una camicetta de tela bianca sottilissima con li capi de le
maniche lavorati de oro, e de uno panno da la cinta quasi fino in terra, e era descalzo. Aveva intorno
lo capo un velo de seta e sovra una ghirlanda de fiori e chiamase raià sultan Manzor.
Domenica a X de novembre, questo re volse intendere quanto tempo era [che] se èramo partiti
de Spagna; e lo soldo e la quintalata [che] ne dava il re a ciascuno de noi; e voleva li dessemo una
firma del re e una bandiera reale, perchè de qui innanzi, la sua isola, e un’altra chiamata Tarenate de
la quale, se ‘l poteva [far] coronare uno suo nipote, detto Calonaghapi, farebbe [che] tutte e due
seriano del re di Spagna; e per onore del suo re era per combattere insino a la morte; e, quando non
potesse più resistere, veniria in Spagna lui e tutti li sui, in uno giunco [che] faceva far de nuovo, con
la firma e la bandiera reale; per ciò [che da] gran tempo era suo servitore.
Ne pregò li lasciassemo alcuni uomini, acciò ogni ora se aricordasse del re de Spagna, e non
mercadanzie, perchè loro non gli resterebbero. E ne disse voleva andare a una isola chiamata
Bachian, per fornirne più presto le navi de garofoli, perciò [che] ne la sua non erano tanti de secchi,
[che] fossero sufficienti a caricar le due navi.
Oggi, per esser domenica, non volse contrattare. Il giorno festeggiato da questi popoli è lo
nostro venere.
Acciò vostra illustrissima signoria sappia le isole dove nascono li garofoli, sono cinque:
Tarenate, Tadore, Mutir, Machian, Bachian. Tarenate è la principale, e, quando viveva lo suo re,
signoreggiava quasi tutte le altre. Tadore è quella dove èramo: tiene re. Mutir e Machian non hanno
re, ma si reggeno a popolo, e quando li due re de Tarenate e de Tadore fanno guerra insieme, queste
due li serveno de gente. La ultima è Bachian e tiene re. Tutta questa provincia, dove nascono li
garofoli, se chiama Maluco.
Non era ancora otto mesi che era morto in Tarenate uno Francesco Serrano, portoghese,
capitano generale del re de Tarenate contro lo re de Tadore; e operò tanto che costrinse lo re de
Tadore [a] donare una sua figliuola per moglie al re de Tarenate e quasi tutti li figlioli de li
principali per ostaggio (de la qual figliola nascette quel nepote de lo re de Tadore): poi, fatta fra loro
la pace, essendo venuto un giorno Francesco Serrano in Tadore per contrattare garofoli, questo re lo
fece velenare con quelle foglie de betre; e vivette se non quattro giorni — il suo re lo voleva far
seppellire secondo le sue leggi, ma tre Cristiani, sui servitori, non consentirono — lo qual lasciò uno
figliuolo e una figliuola piccoli, de una donna che tolse in Giava maggiore, e duecento bahar de
garofoli.
Costui era grande amico e parente del nostro fedel capitano generale; e fu causa de
commuoverlo a pigliar questa impresa, perchè più volte, essendo lo nostro capitano a Malacca, li
aveva scritto come lui stava ivi. Don Manuel, già re di Portogallo, per non volere accrescere la
provvigione del nostro capitano generale solamente di un testone al mese per li suoi benemeriti,
venne in Ispagna ed ebbe da la Sacra Maestà tutto quello [che] seppe domandare. Passati X giorni
dopo la morte de Francesco Serrano, il re di Tarenate, detto raià Abuleis, avendo discacciato suo
genero, re de Bachian, fu avvelenato da [la] sua figliola, moglie del detto re, sotto ombra di voler
concludere la pace tra loro, il quale scampò solum due giorni, e lasciò nove figliuoli principali. Li
loro nomi sono questi: Chechil Momuli, Iadore Vunighi, Chechil de Roix, Cili Manzur, Cili Pagi,
Chialin Chechilin, Cathara, Vaiechu Serich e Calano Ghapi.
Luni a XI de novembre, uno de li figlioli del re de Tarenate, Chechil de Roix, vestito de
velluto rosso, venne a le navi con due prao, sonando con quelle borchie, e non volse allora entrare
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ne le navi. Costui teneva la donna, li figlioli e le altre cose de Francesco Serrano. Quando lo
cognosse[ssi]mo, mandassemo dire al re se ‘l dovevamo ricevere, perchè èramo nel suo porto: ne
rispose facessimo come volevamo. Lo figliolo del re, vedendone star sospesi, se discostò alquanto
de le navi; li andassimo con lo battello a presentarli un panno de oro e de seta indiano con alquanti
coltelli, specchi e forbici. Accettolli con uno poco de sdegno e subito se partì. Costui aveva seco
uno Indio cristiano, chiamato Manuel, servitore d’un Petro Alfonso de Lorosa, portoghese, lo qual,
dopo la morte de Francesco Serrano, venne da Bandan a Tarenate. Il servitore, per sapere parlare il
portoghese, entrò ne le nave e dissene [che], sebbene li figliuoli del re di Tarenate erano nemici del
re di Tadore, niente de meno sempre stavano al servizio del re di Spagna. Mandassemo una lettera a
Pietro Alfonso de Lorosa per questo suo servitore [dicendo che] dovesse vegnire senza sospetto
alcuno.
Questi re teneno quante donne voleno, ma ne hanno una per sua moglie principale, e tutte le
altre obbediscono a questa. Il re di Tadore aveva una casa grande, fuori della città, dove stavano
duecento sue donne de le più principali con altrettante, [che] le servivano. Quando lo re sta solo,
ovvero con la sua moglie principale, in uno luogo alto come un tribunale, ove può vedere tutte le
altre, che li siedono attorno, e a quella [che] più li piace, li comanda vada a dormire seco quella
notte. Finito lo mangiare, se lui comanda che queste mangino insieme, lo fanno: se non, ognuna va
[a] mangiare ne la sua camera. Niuno senza licenza del re le può vedere; e se alcuno è trovato o di
giorno o di notte appresso la casa del re, è ammazzato. Ogni famiglia è obbligata de dare al re una e
due figliuole. Questo re aveva ventisei figliuoli, otto maschi, lo resto femmine.
Dinanzi a questa isola ne è una grandissima, chiamata Giailolo, che è abitata da Mori e da
Gentili. Se trovorono due re fra li Mori, sì come me disse il re, [che] uno aveva avuto seicento
figliuoli, e l’altro cinquecento e venticinque. Li Gentili non teneno tante donne, nè viveno con tante
superstizioni; ma adorano la prima cosa che vedono la mattina, quando escono fora de casa, per
tutto quel giorno. Il re de questi Gentili, detto raià Papua, è ricchissimo de oro e abita dentro in la
isola. In questa isola de Giailolo nascono sopra sassi vivi canne grosse come la gamba, piene de
acqua molto buona da bere: ne compravamo assai da questi popoli.
Marti, a dodici di novembre, il re fece fare in uno giorno una casa ne la città per la nostra
mercanzia. Glie la portassemo quasi tutta e per guardia de quella lasciassimo tre uomini de li nostri,
e subito cominciassemo a mercadantare in questo modo: Per X braccia de panno rosso assai buono
ne davano uno bahar de garofoli, che è quattro quintali e sei libbre (un quintale è cento libbre): per
quindici braccia de panno non troppo bono un bahar; per quindici accette uno bahar: per
trentacinque bicchieri di vetro uno bahar (il re li ebbe tutti): per diciassette catili de ceneprio uno
bahar; per diciassette catili de argento vivo uno bahar; per ventisei braccia de tela uno bahar; per
venticinque braccia de tela più sottile uno bahar; per centocinquanta coltelli uno bahar; per
cinquanta forbici uno bahar; per quaranta bonetti uno bahar; per X panni de Guzerati uno bahar; per
tre di quelle sue borchie due bahar; per un quintal de metallo uno bahar. Tutti li specchi erano rotti,
e li pochi buoni li volse il re. Molte de queste cose erano di quelli giunchi [che] avevamo presi. La
prestezza di venire in Spagna ne fece dare le nostre mercanzie per miglior mercato [che] non
averessimo fatto. Ogni giorno venivano alle navi tante barche, piene de capre, galline, fichi, cocchi
e altre cose da mangiare, che era una meraviglia. Fornissemo le navi de acqua buona. Questa acqua
nasce calda, ma se sta per spazio d’una ora fuora del suo fonte diventa frigidissima. Questo è perchè
nasce nel monte delli garofoli, al contrario como se diceva in Ispagna, l’acqua esser portata a
Maluco da longe parti.
Mercore lo re mandò suo figliuolo, detto Mossahap, a Mutir per garofoli, acciò più presto ne
fornisseno. Oggi dicessemo al re come avevamo presi certi Indi; rengraziò molto Iddio e dissene li
facessimo tanta grazia [che] gli dessemoli prigioni, perchè li manderebbe ne le sue terre, con cinque
uomini de li sui per manifestare del re di Spagna e de sua fama. Allora gli donassemo le tre donne,
pigliate in nome de la reina per la cagione già detta. Il giorno seguente li appresentassemo tutti li
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presoni, salvo quelli de Burne. Ne ebbe grandissimo piacere. Da poi ne disse dovessemo, per suo
amore, ammazzare tutti li porci [che] avevamo nelle mani, perchè ne darebbe tante capre e galline.
Gli ammazzassemo per farli piacere e li appiccassimo sotto la coverta. Quando costoro per
avventura li vedevano, se coprivano lo volto per non vederli, nè sentire lo suo odore.
Sul tardi del medesimo giorno venne in uno prao Pietro Alfonso portoghese; e non essendo
ancora dismontato, il re lo mandò a chiamare e ridendo dissegli, se lui era ben de Tarenate, ne
dicesse la verità de tutto quello che li domandassemo. Costui disse come già [da] sedici anni stava
ne la India, ma X in Maluco, e tanti erano che Maluco stava descoperto ascosamente. Ed era un
anno, manco quindici giorni, che venne una nave grande de Malacca quivi, e se partitte caricata de
garofoli, ma per li mali tempi restò in Bandan alquanti mesi, de la quale era capitano Tristan de
Meneses portoghese; e come lui li domandò che nove erano adesso in Cristianità, li disse come era
partita una armata de cinque navi da Siviglia per descoprire Maluco in nome del re di Spagna,
essendo capitano Fernando de Magallianes portoghese; e come lo re di Portogallo, per dispetto che
uno Portoghese li fosse contra, aveva mandate alquante nave al capo de Bona Speranza e altre tante
al capo de Santa Maria, dove stanno li Cannibali, per vietargli lo passo, e come non lo trovò. Poi el
re di Portogallo aveva inteso come lo detto capitano aveva passato per un altro mare e andava a
Maluco; subito scrisse al suo capitano maggiore de la India, chiamato Diego Lopez de Sichera,
mandasse sei navi a Maluco; ma per causa del Gran Turco che veniva a Malacca non le mandò
perchè gli fu forza mandare contro lui sessanta vele al stretto de la Mecca nella terra de Giuda, li
quali non trovarono altro, solamente alquante galere in secco ne la riva de quella forte e bella città
de Aden, le quali tutte brusorono. Dopo questo mandava contro a noi, a Maluco, uno gran galeone
con due mani de bombarde; ma per certi bassi e correnti de acqua, che sono circa a Malacca e venti
contrari, non potè passare e tornò indietro. Lo capitano de questo galeone era Francesco Faria
portoghese; e come erano pochi giorni che una caravella con due giunchi erano stati quivi per
intendere di noi. Li giunchi andarono a Bachian per caricare garofoli con sette Portoghesi. Questi
Portoghesi per non avere rispetto a le donne del re e de li suoi (lo re li disse più volte non facessero
tal cosa, ma loro non volendo restare) furono ammazzati. Quando quelli della caravella intesero
questo, subito tornarono a Malacca, e lasciarono li giunchi con quattrocento bahar de garofoli e
tanta mercanzia per comperare altri cento bahar. E come ogni anno molti giunchi vèneno de
Malacca a Bandan per pigliare matia e noci moscate, e da Bandan a Maluco per garofoli; e come
questi popoli vanno con questi sui giunchi da Maluco a Bandan in tre giorni, e da Bandan a Malacca
in quindici; e come el re de Portogallo già [da] X anni godeva Maluco ascosamente, acciò lo re de
Spagna nol sapesse.
Costui stette con noi altri insino a tre ore de notte e dissene molte altre cose. Operassemo tanto
che costui, promettendogli buon soldo, ne promise de venire con noi in Spagna.
Venere, al 15 de novembre, il re ne disse come andava a Bachian per pigliare de quelli
garofoli lasciati da li Portoghesi. Ne dimandò due presenti per darli a li due governatori de Mutir in
nome del re di Spagna; e passando per lo mezzo de le navi, volse vedere come tiravano li
schioppetti, le balestre e li versi, che sono maggiori d’uno archibuso. Tirò lui tre volte la balestra,
perchè gli piaceva più che li schioppetti.
Sabato lo re moro de Giailolo venne a le navi con molti prao, al quale donassemo uno saio de
damasco verde, due braccia de panno rosso, specchi, forbici, coltelli, pettini e due bicchieri dorati.
Ne disse [che], perchè erano amici del re de Tadore, èramo ancora suoi, perchè amavalo come uno
suo proprio figliuolo; e, se mai alcuno de li nostri andasseno in sua terra, li farebbe grandissimo
onore.
Questo re è molto vecchio, e temuto per tutte queste isole per essere molto potente, e chiamase
raià Iussu.
Questa isola de Giailolo è tanto grande che tardano quattro mesi a circondarla con uno prao.
Domenica mattina questo medesimo re venne a le navi; e volse vedere in che modo
combattevamo e come scaricavamo le nostre bombarde, del che pigliò grandissimo piacere e subito
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partì. Costui, come ne fu detto, era stato nella sua gioventù grandissimo combattitore.
Nel medesimo giorno andai in terra per vedere come nascevano li garofoli. Lo albero suo è
alto e grosso come un uomo al traverso nè più nè meno: li suoi rami [si] spandono alquanto largo
nel mezzo, ma nella fine fanno in modo de una cima. La sua foglia è come quella del lauro: la
scorza è olivastra. Li garofoli vengono in cima de li rametti, dieci o venti insieme. Questi alberi
fanno sempre quasi più da una banda che de l’altra, secondo li tempi. Quando nascono li garofoli
sono bianchi [quando sono] maturi rossi, e secchi negri. Se coglieno due volte l’anno, una de la
natività del Nostro Redentore, l’altra in quella de Sancto Gioan Battista, perchè in questi due tempi è
più temperato l’aere: ma più in quella del Nostro Redentore. Quando l’anno è più caldo e con manco
piogge, se coglieno trecento e quattrocento bahar in ogni una de queste isole. Nascono solamente ne
li monti, e se alcuni de questi arbori sono piantati al piano, appresso li monti, non vivono. La sua
foglia, la scorza e il legno verde è così forte come li garofoli. Se non si coglieno quando sono
maturi, diventano grandi e tanto duri, che non è bono altro de loro, se non la sua scorza. Non
nascono al mondo altri garofoli, se non in cinque monti de queste cinque isole. Se ne trovano ben
alcuni in Giailolo e in una isola piccola fra Tadore e Mutir, detta Mate, ma non sono buoni.
Vedevamo noi quasi ogni giorno una nebula discendere e circondare l’uno o l’altro de questi monti,
per il che li garofoli diventano perfetti. Ciascuno de questi popoli hanno de questi arbori e ogni uno
custodiscono li sui; ma non li coltivano.
In questa isola se trovano alcuni alberi di noce moscata. L’albero è come le nostre noghere e
con le medesime foglie; la noce quando se coglie, è grande come uno cotogno piccolo, con quel
pelo e del medesimo colore. La sua prima scorza è grossa come lo verde de le nostri noci; sotto de
questa è una tela sottile, sotto la quale sta la matia, rossissima, rivolta intorno la scorza della noce, e
de dentro de questa è la noce moscata.
Le case de questi popoli sono fatte come le altre, ma non così alte da terra, e sono circondate
da canne, in modo de una sieve.
Queste femmine sono brutte, e vanno nude come le altre, con quelli panni de scorza de albero.
Fanno questi panni in tal modo: pigliano uno pezzo di scorza e lo lasciano nell’acqua fin che diventa
molle; e poi lo batteno con legni e lo fanno lungo e largo come vogliono: diventa come uno velo de
seta cruda con certi filetti de dentro che pare sia tessuto. Mangiano pane di legno de albero, come la
palma, fatto in questo modo: pigliano un pezzo de questo legno molle e gli cavano fuora certi spini
negri lunghi; poi lo pestano e così fanno lo pane. L’usano quasi solo per portare in mare e lo
chiamano sagu. Questi uomini vanno nudi come gli altri; ma sono tanto gelosi de le sue moglie, che
non volevano andassemo noi in terra con le braghette discoperte, perchè dicevano le sue donne
pensare noi sempre essere in ordine.
Ogni giorno venivano da Tarenate molte barche caricate di garofoli; ma, perchè aspettavamo
il re, non contrattavamo altro se non vettovaglia. Quelli de Tarenate se lamentavano molto, perchè
non volevamo contrattare con loro. Domenica de notte, a ventiquattro de novembre, venendo al luni,
lo re venne sonando con borchie e, passando per mezzo le navi, discaricassemo molte bombarde. Ne
disse [che] in fine a quattro giorni veniriano molti garofoli. Luni lo re ne mandò settecento e
novanta uno cathili de garofoli senza levare la tara. La tara è pigliare le spezierie per manco de quel
che pesano, perchè ogni giorno se seccano de più. Per essere li primi garofoli [che] avevamo messi
ne le navi, discaricassemo molte bombarde. Quivi chiamano li garofoli ghomode; in Sarangani,
dove pigliassimo li due piloti, bonghalavan, e in Malacca chianche.
Marti, a ventisei di novembre, el re ne disse come non era costume de alcuno re partirsi de la
sua isola: ma lui se era partito per amore del re de Castiglia e perchè andassemo più presto in
Spagna e retornassimo con tante navi, che potessero vendicare la morte de suo padre, che fu
ammazzato in una isola chiamata Buru e poi buttato nel mare. E dissene, come era usanza, quando li
primi garofoli erano posti ne le navi, ovvero ne li giunchi, lo re fare un convito a quelli de le navi e
pregare lo suo Dio li conducesse salvi ne lo suo porto: e anche lo volea fare per cagione del re
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Bachian e uno suo fratello, che venivano per visitarne: faceva nettare le vie.
Alcuni de noi, pensando qualche tradimento, perchè quivi, dove pigliavamo l’acqua, furono
ammazzati da certi de questi, ascosi ne li boschi, tre Portoghesi de Francesco Serrano, e perchè
vedevamo questi Indi susurrare con li nostri prigioni, dicessemo, contra alquanti volonterosi de
questo convito, non se dovere andare in terra per convito, ricordandogli de quello altro tanto
infelice.
Facessemo tanto [che] se concluse de mandare [a] dire al re venisse presso a le navi perchè
volevamosi partire e consegnarli li quattro uomini promessi con altre mercanzie. Il re subito venne
e, entrando ne le navi, disse ad alcuni sui, [che] con tanta fiducia entrava in queste come ne le sue
case. Ne disse essere grandemente spaventato per volerne partire così presto, essendo il termine de
caricare le navi trenta giorni, e non essersi partito per farne alcun male, ma per fornire più presto le
navi de garofoli; e come non se dovevamo partire allora, per non essere ancora lo tempo [de]
navigare per queste isole et per li molti bassi [che] se trovano circa Bandan e perchè facilmente
avressimo potuto incontrarsi [in] qualche nave de Portoghesi. E se pur era la nostra opinione de
partirsi allora, pigliassemo tutte le nostre mercadanzie, perchè tutti li re cinconvicini direbbono il re
di Tadore avere ricevuto tanti presenti da uno sì gran re e lui non averli dato cosa alcuna, e
penserebbero noi essersi partiti per paura de qualche inganno, e sempre chiamerebbeno lui per uno
traditore.
Poi fece portare lo suo Alcorano, e prima baciandolo e mettendoselo quattro o cinque volte
sovra il capo e dicendo fra sè certe parole (quando fanno così chiamano zambahean), disse in
presenza de tutti che giurava per Allà e per lo Alcorano che aveva in mano, sempre volere essere
fedele amico al re di Spagna. Disse tutto questo quasi piangendo. Per le sue buone parole li
promettessimo de aspettare ancora quindici giorni. Allora li dessemo la firma del re e la bandiera
reale. Niente di meno intendessemo poi, per buona via, alcuni principali di queste isole averli detto
ne dovesse ammazzare, perchè farebbe grandissimo piacere a li Portoghesi e come loro
perdoneriano a quelli de Bachian: e il re averli risposto [che] non lo faria per cosa alcuna,
conoscendo lo re de Spagna e avendone data la sua pace.
Mercore, a ventisette de novembre, dopo disnare, lo re fece fare un bando a tutti quelli [che]
avevano garofoli, li potesseno portare ne le navi. Tutto questo giorno e l’altro contrattassemo
garofoli con gran furia. Venere, sul tardi, venne lo governatore de Machian con molti prao. Non
volse desmontare in terra, perchè stavano ivi suo padre e uno suo fratello banditi da Machian. Il
giorno seguente lo nostro re con lo governatore suo nepote, entrarono ne le navi. Nui, per non aver
più panno, ne mandò a torre tre braccia del suo e ne ‘l dette, lo quale con altre cose donassemo al
governatore. Partendose, se discaricò molte bombarde. Dappoi lo re ne mandò sei braccia de panno
rosso, acciò lo donassemo al governatore. Subito lo gli presentassemo, per il che ne ringraziò molto
e disse ne manderebbe assai garofoli. Questo governatore se chiama Humar ed era forse de
venticinque anni.
Domenica, primo de dicembre, questo governatore se partì. Ne fu detto il re de Tadore avergli
dato panni de seta e alcune de quelle borchie, acciò costui più presto li mandasse li garofoli. Luni il
re andò fuori de la isola per garofoli. Mercore mattina, per essere giorno de Santa Barbara e per la
venuta del re, se descaricò tutta l’artiglieria. La notte lo re venne nella riva e volse vedere come
tiravamo li rocchetti e bombe da fuoco, del che lo re pigliò gran piacere. Giove e venere se comperò
molti garofoli così ne la città, come ne le navi. Per quattro braccia de frisetto ne davano uno bahar
de garofoli; per due catenelle de lattone, che valevano uno marcello, ne dettero cento libbre de
garofoli; infine per non avere più mercadanzie, ognuno li dava chi le cappe, e chi i sai, e chi le
camicie con altri vestimenti per avere la sua quintalata. Sabato tre figlioli del re di Taranate con tre
sue mogli, figliole del nostro re, e Pietro Alfonso portoghese venirono a le navi. Donassemo a ogni
uno de li tre fratelli un bicchier de vetro dorato, a le tre donne forbici e altre cose. Quando se
partirono furono scaricate molte bombarde. Poi mandessemo in terra a la figliola del nostro re, già
moglie del re di Taranate, molte cose, perchè non volse vegnire con le altre a le navi. Tutta questa
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gente, così uomini come donne, vanno sempre descalzi.
Domenica, a otto de dicembre, per essere giorno della Concezione, se scaricò molte
bombarde, rocchetti e bombe di fuoco. Luni, sul tardi, lo re venne a le navi con tre femmine, [che] li
portavano il betre. Altri non può menare seco donne se non il re. Dopo venne il re de Giailolo, e
volse vedere noi un’altra fiata combattere insieme. Dopo alquanti giorni il nostro re ne disse lui
assimigliare uno fanciullo che lattasse e conoscesse la sua dolce madre e, quella partendosi, lo
lasciasse solo; maggiormente lui restare desconsolato, perchè già aveva conosciuto e gustato alcune
cose di Spagna e perchè dovevamo tardare molto al ritornare, carissimamente ne pregò li
lasciassimo per sua defensione alquanti de li versi nostri, e ne avvisò, quando fossimo partiti,
navigassemo se non de giorno, per li molti bassi [che] sono in queste isole.
Li respondessimo, [che] se volevamo andar in Spagna, ne era forza navigare de giorno e de
notte. Allora disse farebbe per noi ogni giorno orazione al suo Iddio, acciò ne conducesse a
salvamento. E dissene come doveva venire lo re de Bachian per maritare uno suo fratello con una de
le sue figliuole: ne pregò volessemo far alcuna festa in segno de allegrezza, ma non scaricassemo le
bombarde grosse, perchè farebbero gran danno a le navi, per essere caricate in questi giorni.
Venne Pietro Alfonso portoghese con la sua donna e tutte le altre sue cose a stare ne le navi.
De li a due giorni venne a le navi Chechil de Roix, figliolo del re de Tarenate, in un prao ben fornito
e disse al Portoghese [che] discendesse un poco al suo prao; li rispose [che] non li voleva
discendere, perchè veniva nosco in Spagna. Allora lui volse entrare ne le navi; ma noi non lo
volsemo lasciar entrare. Costui, per essere grande amico del capitano de Malacca, portoghese, era
venuto per pigliarlo, e gridò molto a quelli [che] stanziavano appresso il Portoghese, perchè lo
avevano lasciato partire senza sua licenza.
Domenica, a quindici de dicembre, sul tardi il re de Bachian e il suo fratello venirono in uno
prao con tre mani di vogatori per ogni banda; erano [in] tutti cento e venti, con molte bandiere de
piuma de pappagallo bianche, gialle e rosse e con molti suoni de quelle borchie, perchè a questi
suoni li vogatori vogano a tempo: e con due altri prao de donzelle per presentarle a la sposa. Quando
passarono appresso le navi, li salutassemo con bombarde, e loro per salutarne circondorono le navi e
il porto.
Il re nostro, per essere costume nessuno re discendere ne le terre de altrui, venne per
congratularse seco. Quando il re de Bachian lo vide venire, se levò dal tappeto dove sedeva, e posesi
de una banda; il nostro re non volse sedere sovra lo tappeto, ma dall’altra parte; e così niuno stava
sopra lo tappeto.
Il re de Bachian dette al nostro re cinquecento patolle, perchè desse sua figlia per moglie al
suo fratello. Queste patolle sono panni de oro e de seta fatti nella Cina e molto pregiati fra costoro.
Quando uno de questi muore, li altri suoi, per fargli più onore, se vestono de questi panni. Dànno,
per uno de questi, tre bahar de garofoli e più e meno, secondo che sono.
Luni il nostro re mandò uno convito al re de Bachian per cinquanta donne, tutte vestite de
panni de seta, da la cinta fino al ginocchio. Andavano a due a due con uno uomo in mezzo de loro.
Ognuna portava uno piatto grande, pieno di altri piattelli de diverse vivande. Li uomini portavano
solamente lo vino in vasi grandi. Dieci donne de le più vecchie erano le mazziere. Andarono in
questo modo fino al prao e appresentarono ogni cosa al re, che sedeva sovra lo tappeto sotto uno
baldacchino rosso e giallo.
Tornando costoro indietro, pigliarono alcuni de li nostri e se loro volsero essere liberi li
bisognò darli qualche sua cosetta.
Dopo questo il re nostro ne mandò capre, cocchi, vino e altre cose. Oggi mettessemo le vele
nuove a le navi, ne le quali era una croce de Santo Iacobo de Gallizia, con lettere che dicevano:
questa è la figura de la nostra buona ventura.
Marti donassemo al nostro re certi pezzi de artiglieria come archibusi, che avevamo pigliati in
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questa India, e alcuni pezzi de li nostri con quattro barili de polvere. Pigliassemo quivi ottanta botti
de acqua per ciascuna nave. Già [da] cinque giorni lo re aveva mandato cento uomini a far legno per
noi a la isola di Mare, perchè convenivamo passare per ivi.
Oggi lo re de Bachian con molti altri de li suoi discendette in terra per fare pace con noi.
Dinnanzi de lui andavano quattro uomini con stocchi dritti in mano. Disse, in presenza del nostro re
e de tutti li altri, come sempre starebbe in servizio del re di Spagna e salvaria in suo nome li
garofoli, lasciati da li Portoghesi, finchè venisse un’altra nostra armata, e mai li darebbe a loro senza
lo nostro consentimento.
Mandò a donare al re di Spagna uno schiavo, due bahar de garofoli (glie ne mandava X, ma le
navi per essere troppo caricate non li poterono portare), e due uccelli morti, bellissimi. Questi
uccelli sono grossi come tordi, hanno lo capo piccolo con lo becco lungo; le sue gambe sono lunghe
un palmo e sottile come un calamo; non hanno ali, ma in luogo di quelle, penne lunghe de diversi
colori come gran pennacchi: la sua coda è come quella del tordo: tutte le altre sue penne, eccetto le
ali, sono del colore de taneto, e mai non volano se non quando è vento.
Costoro ne dissero questi uccelli venire dal paradiso terrestre e li chiamano bolon dinata, cioè
uccelli de Dio.
Ognuno de li re de Maluco scrissero al re de Spagna che sempre volevano esserli suoi veri
sudditi. Il re de Bachian era forse de settanta anni: e aveva questa usanza: quando voleva andare a
combattere, ovvero a fare qualche altra cosa importante, prima se lo faceva fare due o tre volte da
uno suo servitore che nol teneva ad altro effetto se non per questo.
Un giorno il nostro re mandò a dire a quelli nostri, che stavano nella casa della mercanzia,
[che] non andasseno de notte fuora de casa, per certi de li suoi uomini, che se ongeno e vanno de
notte e pareno siano senza capo. Quando uno de questi trova uno de li altri, li tocca la mano e glie la
unge un poco dentro: subito colui se inferma e fra tre o quattro giorni muore: e quando questi
trovano tre o quattro insieme, non gli fanno altro male, se non che l’imbalordiscono. E lui ne aveva
fatto impiccare molti.
Quando questi popoli fanno una casa di nuovo, prima [che] li vadano ad abitare dentro, li
fanno fuoco intorno e molti conviti; poi attaccano al tetto de la casa un poco d’ogni cosa [che] si
trova ne la isola, acciò non possino mai mancare tal cose a gli abitanti. In tutte queste isole se trova
gingero; noi lo mangiavamo verde, come pane.
Lo gingero non è albero, ma una pianta piccola, che pullula fuori de la terra certi coresini
lunghi un palmo, come quelli de le canne e con le medesime foglie, ma più strette. Questi coresini
non valeno niente; ma la sua radice è il zenzero, e non è così forte verde come secca. Questi popoli
lo seccano in calcina, perchè altrimenti non durerebbe.
Mercore mattina, per volerse partire de Maluco, il re de Tadore, quel re Giailolo, quel de
Bachian e uno figlio del re de Tarenate, tutti erano venuti per accompagnarne infino a l’isola de
Mare. La nave Victoria fece vela e discostossi alquanto aspettando la nave Trinitade: ma questa, non
potendo levare l’ancora, subito fece acque nel fondo. Allora la Victoria tornò al suo luogo, e subito
cominciammo a scaricare la Trinitade per vedere se potevamo rimediarli. Si sentiva venire dentro
l’acqua, come per un cannone, e non trovammo dove la entrava. Tutto oggi e il dì seguente non
facessemo altro si non dare alla pompa, ma niente li giovavamo.
Il nostro re, intendendo questo, subito venne ne la nave e se affaticò per vedere dove veniva
l’acqua. Mandò nell’acqua cinque de li suoi per vedere se avessemo potuto trovare la fessura.
Stetteno più di mezz’ora sott’acqua e mai la trovarono. Vedendo il re costoro non potere giovare e
ogni ora crescere più l’acqua, disse quasi piangendo [che] manderebbe al capo de la isola per tre
uomini, [che] stavano molto sotto acqua.
Venere mattina, a buona ora, venne lo nostro re con li tre uomini e presto mandolli ne l’acqua
con li capelli sparsi, acciò con quelli trovassero la fessura. Costoro stettero una buona ora sotto
acqua e mai la trovarono. Il re, quando vide non poterli trovare rimedio, disse piangendo: chi anderà
mo’ in Spagna dal mio signore a darli nuova di me? Li rispondessimo che andarebbe la Victoria per
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non perdere li levanti, li quali cominciavano; e la altra, fin [che] se conciasse, aspetterebbe li
ponenti e poi andaria al Darien, che è ne l’altra parte del mondo ne la terra de Diucatan.
Il re ne disse [che] aveva duecentoventicinque marangoni, che farebbono il tutto; e li nostri
che restavano ivi li tenirebbe como suoi figli e non se affaticarebbono, se non due in comandare a li
marangoni come dovessero fare. Diceva queste parole con tanta passione, che ne fece tutti piangere.
Noi della nave Victoria, dubitando se aprisse la nave per esser troppo caricata, la alleggerissimo de
sessanta quintali de garofoli, e questi facessemo portare ne la casa, dove erano li altri. Alcuni de la
nostra nave volsero restare quivi, per paura che la nave non potesse durare sino in Ispagna: ma
molto più per paura de morire de fame.
Sabato, a vintuno de dicembre, giorno de San Tommaso, il re nostro venne a le navi e ne
consegnò li due piloti [che] avevamo pagati, perchè ne conducessero fuora de queste isole; e dissene
come allora era buon tempo de partirse; ma per lo scrivere de li nostri in Spagna, non ne partissemo
se non a mezzodì. Venuta l’ora, le navi pigliarono licenza l’una dall’altra con scaricare le bombarde,
e pareva loro lamentarsi per la sua ultima partita.
Li nostri ne accompagnarono un poco con loro battello, e poi con molte lagrime e
abbracciamenti, se dipartissemo. Lo governatore del re venne con noi infino a la isola del Mare.
Non fossimo così presto giunti [che] comparsero quattro prao carichi di legna, e in manco d’una ora,
caricassemo la nave, e subito pigliassemo la via del garbin. Quivi restò Giovan Carvajo con
cinquanta persone de li nostri; noi èramo quarantasette e tredici Indi.
Questa isola de Tadore tiene episcopo e allora ne era uno che aveva quaranta mogli e
assaissimi figliuoli.
In tutte queste isole de Maluco se trovano garofoli, zenzero, sagu (quel suo pane di legno),
riso, capre, oche, galline, cocchi, fichi, mandorle più grosse de le nostre, pomi granati dolci e garbi,
aranci, limoni, patate, miele de api piccole come formiche, le quali fanno lo miele ne li arbori, canne
dolci, olio de cocco e de giongioli, meloni, cocomeri, zucche, uno frutto rinfrescativo grande come
le angurie, detto comulicai, e un altro frutto, quasi come lo persico, detto guane; e altre cose da
mangiare. E se li trovano papagalli de diverse sorte; ma fra le altre alcuni bianchi chiamati cathara, e
alcuni tutti rossi, detti nori: e uno de questi rossi vale un bahar de garofoli, e parlano più
chiaramente che li altri. Sono forse cinquanta anni che questi Mori abitano in Maluco: prima lì
abitavano Gentili e non apprezzavano li garofoli. Gli ne sono ancora alcuni; ma abitano ne li monti,
dove nascono li garofoli.
La isola de Tadore sta de latitudine al polo Artico in ventisei minuti; e de longitudine de la
linea de repartizione in cento e sessantuno grado, e lungi de la prima isola dell’Arcipelago, detta
Zanial, nove gradi e mezzo, a la quarta del mezzo giorno e tramontana verso greco e garbin.
Terenate sta di latitudine all’Artico in due terzi. Mutir sta precisamente sotto la linea equinoziale.
Macian sta al polo Antartico in un quarto e Bachian ancora lui all’Antartico in un grado. Tarenate,
Tadore, Mutir e Machian sono quattro monti alti e pontini, ove nascono li garofoli. Essendo in
queste quattro isole, non se vede Bachian; ma lui è maggiore de ciascuna de queste quattro isole e il
suo monte de li garofoli non è così pontino come li altri, ma più grande.
VOCABOLI DI QUESTI POPOLI MORI
Al suo dio = Allà.
Al cristiano = naceram.
Al turco = riunno.
Al moro mussulmano = Isilam.
Al Gentile = Cafre.
Alle sue maschite = mischit.
A li sui preti = maulana catip mudir.
A li uomini sapienti = horan panditu.
A li uomini sui devoti = mossai.
A le sue cerimonie = zambahe tan de alà
meschit.
Al padre = bapa.
A la madre = mama ambui.
Al figliolo = anach.
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Al fratello = sandala.
Al fratello de questo = capatin muiadi.
Al germano = sandala sopopu.
A l’avo = niny
Al suocero = minthua.
Al genero = minanthu.
Al uomo = horan.
A la femmina = poranpoan.
A li capelli = lambut.
Al capo = capala.
Al fronte = dai.
A l’occhio = matta.
A le ciglie = quilai.
A le palpebre = cenin.
Al naso = idon.
A la bocca = mulut.
A li labbri = bebere.
A li denti = gigi.
A le gengive = issi.
A là lingua = lada.
Al palato = langhi.
Al mento = aghai.
A la barba = ianghut.
A li mustacchi = missai.
A la mascella = pipi.
A le orecchie = talingha.
A la gola = laher.
Al collo = tundun.
A le spalle = balachan.
Al petto = dada.
Al core = atti.
A la mammella = sussu.
Al stomaco = parut.
Al corpo = tundunbutu.
Al membro = botto.
A la natura de le donne = bucchii.
Al usar con loro = amput.
A le natiche = buri.
A la gamba = mina.
Al stinco de la gamba = tula.
A la sua polpa = tilorchaci.
A la caviglia del piè = buculali.
A le cosce = taha.
Al calcagno = tumi.
Al piede = batis.
A le suole del piede = emparchaqui.
A la unghia = cuchu.
Al braccio = langhan.
Al gomito = sichu.
A la mano = tanghan.
Al dito grosso de la mano = idun tanghan.
Al secondo = tangu.
Al terzo = geri.
Al quarto = mani.
Al quinto = calinchin.
Al riso = bugax.
Al cocco in Maluco et in Burne = biazzao.
Al cocco in Luzon = mor.
Al cocco in Giava maggiore = calambil.
Al fico = pizam.
A le canne dolci = tubu.
A le patate = gumbili.
Al melone = antimon.
A le radici come rape = ubi.
A le chiachiare = mandicai sicui.
A le angurie = labu.
A la vacca = lambu.
Al porco = babi.
Al bufalo = carban.
A la pecora = biri.
A la capra = cambin.
Al gallo = sanbunghan.
A la gallina = aiambatina.
Al cappone = gubili.
A l’ovo = talor.
A l’ocato = itich.
A l’oca = ansa.
A l’uccello = bolon.
A l’elefante = gagia.
Al cavallo = cuda.
Al leone = huriman.
Al cervo = roza.
Al cane = cuin.
Alle api = haermadu.
Al miele = gulla.
A la cera = lelin.
A la candela = dian.
Al suo stoppino = sumbudian.
Al fuoco = appi.
Al fumo = asap.
A la cenere = abu.
Al cucinato = azap.
Al molto cucinato = lambech.
A l’acqua = tubi.
A l’oro = amax.
A l’argento = pirac.
A la pietra preziosa = premata.
A la perla = mutiara.
A l’argento vivo = raza.
Al metallo = tumbaga.
Al ferro = baci.
Al piombo = tima.
A le sue borchie = agun.
A lo cenaprio = galvga sadalinghan
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A l’argento = soliman danas.
Al panno de seta = cain sutra.
Al panno rosso = cain mira.
Al panno negro = cain ytam.
Al panno bianco = cain pute.
Al panno verde = cain igao.
Al panno giallo = cain cunin.
Al bonnet = cophia.
Al coltello = pixao.
A la forbice = guntin.
Al specchio = chiela min.
Al pettine = sissir.
Al cristallino = manich.
Al sonaglio = giringirin
A l’anello = sinsin.
A li garofoli = ghianche.
A la cannella = caiumanis.
Al pevere = lada.
Al pevere lungo = sabi.
A la noce moscata = buapala gosoga.
Al filo di rame = canot.
Al piatto = inghan.
A la pignatta = prin.
A la scodella = manchu.
Al piatto de legno = dulan.
A la conca = calunpan.
A le sue misure = socat.
A la terra = buchit.
A la terra ferma = buchit tana.
A la montagna = gonun.
A la pietra = batu.
A l’isola = polan.
A un capo de terra = tanun buchit.
Al fiume = songhai.
Como se chiama questo? = apenamaito.
A l’olio de cocco = mignach.
A l’olio de giongioli = lana lingha.
Al sale = garan sira.
Al muschio e al suo animale = castori.
Al legno che mangiano li castori = comarn.
A la sansuga = linta.
Al zibetto = jabat.
Al gatto che fa lo zibetto = mozan.
Al reobarbaro = calama.
Al demonio = saytan.
Al mondo = bumi.
Al fromento = gandun.
Al dormire = tidor.
A le stuoie = tical.
Al cuscino = bantal.
Al dolore = bachet.
A la sanitate = baii.
Alla setola = cupia.
Al sparaventolo = chipas.
A li suoi panni = chebun.
A le camice = bain.
A le sue case = pati alam.
A l’anno = taun.
Al mese = bullan.
Al dì = alli.
A la notte = mallan.
Al tarde = malamari.
Al mezzodì = tamhahari.
A la mattina = patan patan.
Al sole = malahari.
A la luna = bulan.
A la mezzaluna = tanan patbulan.
A le stelle = bintan.
Al cielo = languin.
Al trono = gunthur.
Al mercadante = sandagar.
A le città = naghiri.
Al castello = cuta.
A la casa = rinna.
Al sedere = duodo.
Siediti gentiluomo = duodo, orancaia.
Siediti uomo da bene = duodo, orambai et
anan.
Signor = tuan.
Al putto = cana cana.
A un suo allievo = lascar.
Al schiavo = alipin.
Al sì = ca.
Al no = tida.
A l’intendere = thao.
Al non intendere = tida taho.
Non mi guardare = tida liat.
Guardami = liat.
A essere una medesima cosa = casi, casi;
siama siama.
All’ammazzare = mati.
A la magalda = sondal.
Al mangiare = macan.
Al cucchiaro = sandoch.
Grande = bassal.
Longo = pangian.
Piccolo = chechil.
Corto = pandach.
All’avere = ada.
Al non avere = tida hada.
Signor, ascolta! = tuan diam.
Dove viene il giunco? = dimana a juin.
A la gucchia da cucire = talun.
Al cucire = banan.
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Al filo da cucire = pintal banan.
A la scuffia del capo = dastar capala.
Al re = raià.
A la regina = putli.
Al legno = caiu.
Al stentar = caraiar.
Al salassare = buandala.
A la vena del braccio dove se salassa = vrat
paratanghan.
Al sangue che vien fora dal braccio = dara
carnal.
Al sangue buono = dara.
Quando starnutano dicono: ebarasai.
Al pesce = ycam.
Al polpo = calabutan.
A la carne = dagni.
Al corniolo = cepot.
Poco = serich.
Mezzo = sathana sapanghal.
Al freddo = dinghin.
Al caldo = panas.
Lungi = jan.
A la verità = benar.
A la bugia = dusta.
Al rubare = manchiuri.
A la rogna = codis.
Piglia = na.
Dammi = ambil.
Grasso = gamuch.
Magro = golos.
Al cappello = tandun capala.
Quanti = barapa.
Una fiata = statu chali.
Uno braccio = dapa.
Al parlare = catha.
A quivi = sivi.
A là = sana datan.
Bongiorno = salamalichum.
Al rispondere = alichum salam.
Signori, bon prò vi faccia = mali horancaia
macan.
Già ho mangiato = suda macan.
Uomo, levati di lì = pandan chita oran.
Al disdisidare = banum chan.
Buona sera = sebalchaer.
Al risponder = chaer sandat.
Al dare = minta.
Al dare ad alcuno = bripocol.
A li ceppi de ferro = balanghu.
Oh come puzza! = bossochini.
All’uomo giovane = horan muda.
Al vecchio = tua.
Al scrivano = xiritoles.
A la carta = cartas.
Al scrivere = mangurat.
A la penna = calam.
A l’inchiostro = danat.
Al calamaro = padantan.
A la lettera = surat.
Non lo ho = guala.
Vien qui = camarj.
Che volete? = appa man?
Che mandate? = appa ito?
Al porto de mare = labuan.
A la galera = gurap.
A la nave = capal.
A la prora = allon.
A la poppa = biritan.
Al navigare = belaiar.
Al suo arbore = tian.
A l’antenna = laiar.
Alle sartie = tamira.
A la vela = leier.
A la gabbia = simbulaia.
A la corda de l’ancora = danda.
A la ancora = san.
Al battello = san pan.
Al remo = daiun.
A la bombarda = badil.
Al vento = anghin.
Al mare = lant.
Uomo, vien qui = horan itu datan.
A li suoi pugnali = calix golog.
Al suo manico = daganan.
A la spada = padan gole.
A la zorabotana = sumpitan.
A le sue frecce = damach.
A l’erba venenata = ypu.
Al carcasso = bolo.
A l’arco = bossor.
A le sue frecce = anacpaan.
A li gatti = conchin purhia.
Al sorcio = tucus.
Al legoro = buaia.
A li vermi che mangiano le navi = capan
lotos.
All’amo da pescare = matacanir.
A la sua esca = unpan.
A la corda dell’amo = tunda.
Al lavare = mandi.
Non aver paura = tangan tacut.
Stracca = lala.
Uno bacio dolce = salap manis.
A l’amico = sandara.
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Al nemico = sanbat.
Certo è = zonghu.
Al mercadantare = bianiga.
Non ho = anis.
A essere amico = pugna.
Due cose = malupho.
Sì = one.
Al rufo = zoroan pagnoro.
A darse piacere = mamain.
Al matto = gila.
A l’interprete = giorobaza.
Quanti linguaggi sai? = barapa bahasa tan?
Molti = bagna.
Al parlare de Malacca = chiaramalaiu.
Dove sta colui? = dimana horan?
A la bandiera = tonghol.
Adesso = sacaran.
Da mattina = hezoch.
L’altro giorno = luza.
Ieri = calamari.
Al martello = palmo colbasi.
Al chiodo = pacu.
Al mortaro = lozon.
Al pilone de pestare = atan.
Al ballare = manari.
Al chiamare = panghil.
A non essere maritato = ugan.
A essere maritato = suda babini.
Tutto uno = saunia.
A la pioggia = ugian.
A l’ubbriaco = moboch.
A la pelle = culit.
A la biscia = ullat.
Al combatter = guzar.
Dolce = manis.
Amaro = azon.
Come stai? = appa giadi?
Bene = bay.
Male = sachet.
Portame quello = biriacan.
Questo uomo è un poltrone = giadi hiat horan
itu.
Basta = suda.
A la tramontana = iraga.
Al mezzodì = salatan.
Al levante = timor.
Al ponente = baratapat.
Al greco = utara.
Al garbin = berdaia.
Al maestrale = barolaut.
Al scirocco = tunghara.
Uno = satus.
Due = dua.
Tre = tiga.
Quattro = ampat.
Cinque = lima.
Sei = anam.
Sette = tugu.
Otto = duolappan.
Nove = sambilan.
Dieci = sapolo.
Venti = duapolo.
Trenta = tigapolo.
Quaranta = ampatpolo.
Cinquanta = limapolo.
Sessanta = anampolo.
Settanta = tugupolo.
Ottanta = dualapanpolo.
Novanta = sambilampolo.
Cento = saratus.
Duecento = duaratus.
Trecento = tigaratus.
Quattrocento = anamparatus.
Cinquecento = limaratus.
Seicento = anambratus.
Settecento = tuguratus.
Ottocento = dualapanratus.
Novecento = sambilanratus.
Mille = salibu.
Due mila = dualibu.
Tre mila = tigalibu.
Quattro mila = ampatlibu.
Cinque mila = limalibu.
Sei mila = anamlibu.
Sette mila = tugulibu.
Otto mila = dualapanlibu.
Nove mila = sanbilanlibu.
Dieci mila = salacza.
Settecento mila = tugucati.
Dieci fiate cento mila = sainta.
Tutti li cento, li mille, li dieci mille, li cento
mille et diece fiate cento mille se
congiungono con il numero de satus et due,
etc.
Andando al nostro cammino passassemo tra queste isole: Caioan, Laigoma, Sico, Giogi,
Caphi; (in questa isola de Caphi nascono uomini piccoli, come li nani, li quali sono li Pigmei e
stanno soggetti per forza al nostro re de Tadore); Laboan, Toliman, Titameti, Bachian già dette,
Latalata, Talobi, Maga e Batutiga. Passando fuora al ponente de Batutiga camminassemo fra
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ponente e garbin e discopersemo al mezzogiorno alquante isole, per il che li piloti de Maluco ne
dissero se arrivasse, perciò [che] ne cacciavamo tra molte isole e bassi. Arrivassemo al scirocco, e
dessemo in una isola, che sta de latitudine al polo Antartico in due gradi, e cinquantacinque leghe
lungi da Maluco, e chiamase Sulach.
Li uomini de questa isola sono Gentili e non hanno re; mangiano carne umana; vanno nudi,
così uomini come femmine, ma solamente portano un pezzo de scorza larga due diti intorno alle sue
vergogne. Molte isole sono per quivi, che mangiano carne umana. Li nomi de alcune sono questi:
Silan, Noselao, Biga, Atulabaon, Leitimor, Tenetum, Gondia, Pailarurun, Manadan, e Benaia. Poi
costeggiassemo due isole, dette Lamatola e Tenetuno, da Sulach circa X leghe.
A la medesima via trovassemo una isola assai grande, ne la quale se trova riso, porci, capre,
galline, cocchi, canne dolci, sagu, uno suo mangiare de fichi, el quale chiamano chanali, chiacare e
questa chiamano nanga. Le chiachiare sono frutti come le angurie, de fora nodose, de dentro hanno
certi frutti rossi piccoli, come armellini; non hanno osso, ma per quello hanno una midolla come
uno fagiolo, ma più grande, e al mangiare tenero come castagne; e uno frutto, fatto come una pigna,
de fuora giallo e bianco de dentro, e al tagliare come un pero, ma più tenero e molto migliore, detto
comilicai.
La gente de questa isola vanno nudi come quelli de Sulach; sono Gentili e non hanno re.
Questa isola sta de latitudine al polo Antartico in tre gradi e mezzo e lungi da Maluco settantacinque
leghe; e chiamase Buru. Al levante de questa isola dieci leghe ne sta una grande, che confina con
Giailolo, la quale è abitata da Mori e da Gentili; li Mori stanno appresso il mare e li Gentili de
dentro nella terra; e questi mangiano carne umana. Nasce in questa le cose già dette e se chiama
Ambon. Tra Buru e Ambon si trovano tre isole, circondate da bassi, chiamate Vudia, Cailaruri, e
Benaia. Circa da Buru quattro leghe, al mezzodì, sta una isola piccola, e chiamase Ambelau.
Lungi da questa isola di Buru, circa trentacinque leghe, a la quarta del mezzogiorno verso
garbin, se trova Bandan-Bandan e dodici isole. In sei de queste nasce la matia e noce moscata; e li
nomi loro sono questi: Zoroboa, maggiore de tutte le altre, Chelicel, Semianapi, Pulac, Pulurun e
Rosoghin. Le altre sei sono queste: Unuveru, Pulan Baracan, Lailaca, Manucan, Man e Ment. In
queste non si trovano noci moscate; se non sagu, riso, cocchi, fichi e altri frutti, e sono vicine l’una a
l’altra. Li popoli de queste sono Mori e non hanno re. Bandan sta de latitudine al polo Antartico in
sei gradi e di longitudine da la linea repartizionale in cento e sessantatre gradi e mezzo, e per esser
un poco fuora del nostro cammino non fossimo ivi.
Partendone de quella isola de Buru, a la quarta de garbin verso ponente, circa 8 gradi di
longitudine, arrivassemo a tre isole; Zolot, Nocemamor e Galian, e navigando per mezzo di queste
ne assaltò una gran fortuna, per il che facessimo un pellegrinaggio a la Nostra Donna de la Guida, e
pigliando a poppa lo temporale, dessemo in una isola alta; e innanzi [che] giungessimo ivi, se
affaticassemo molto per le raffiche [che] descendevano da li sui monti e per le grandi correnti de
acqua.
Li uomini de questa isola sono selvatici e bestiali; mangiano carne umana e non hanno re;
vanno nudi con quella scorza come li altri; se non [che], quando vanno a combattere, portano certi
pezzi de pelle de bufalo, dinanzi e di dietro e ne li fianchi, adornati con cornioli e denti di porci e
con code de pelle caprine, attaccate dinanzi e de dietro: portano li capelli in alto con certi pettini di
canna lunghi, che li passano da parte a parte e li tieneno alti. Hanno le sue barbe rivolte in foglie e
poste in cannuti de canna, cosa ridicola al vedere, e sono li più brutti [che] siano in questa India.
Li suoi archi e le sue frezze sono de canna; e hanno certi sacchi, fatti de foglie de arbore, ne li
quali portano lo suo mangiare e bere le sue femmine. Quando ne visteno ne venirono incontro con
archi: ma dandoli alcuni presenti, subito diventassemo sui amici.
Quivi tardassimo quindici giorni per conciare la nostra nave ne li costati. In questa isola se
trova galline, capre, cocchi, cera (per una libbra de ferro vecchio ne donarono quindici de cera) e
pevere lungo e rotondo. Il pevere longo è come quelle gattelle che fanno le nizzole quando è
l’inverno. Il suo arbore è come l’edera e attaccasi a li arbori come quella; ma le sue foglie sono come
quelle del moraro e lo chiamano luli. Il pevere rotondo nasce come questo, ma in spighe, come lo
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frumentone della India, e si disgrana; e lo chiamano lada. In queste parti sono pieni li campi di
questo pevere, fatti in modo de pergolati.
Pigliassemo quivi uno uomo, acciò ne conducesse ad alcuna isola, [che] avesse vittuaria.
Questa isola sta de latitudine al polo Antartico in otto gradi e mezzo, e cento e sessantanove e due
terzi de longitudine da la linea repartizionale: e chiamase Malua.
Ne disse il nostro piloto vecchio de Maluco, come appresso quivi era una isola, chiamata
Arucheto, li uomini e femmine de la quale non sono maggiori d’un cubito e hanno le orecchie grandi
come loro: de una fanno lo suo letto e de l’altra se copreno, vanno tosi e tutti nudi; corrono molto,
hanno la voce sottile; abitano in cave sotto terra e mangiano pesce e una cosa che nasce tra l’albero e
la scorza, che è bianca e rotonda come coriandoli de confetto, detta ambulon; ma per le gran correnti
de acqua e molti bassi, non li andassemo.
Sabato, a venticinque de gennaro MCCCCCXXII, se partissemo de l’isola de Malua, e la
dominica, a ventisei, arrivassemo a una grande isola, longi da quella cinque leghe, fra mezzodì e
garbin. Io solo andai in terra a parlare al maggiore d’una villa, detta Amaban, acciò ne desse
vittuvaglie: me rispose darebbe bufali, porci e capre; ma non ci potessimo accordare perchè voleva
molte cose per un bufalo. Noi, avendone poche e costringendone la fame, ritenessimo ne la nave
uno principale con uno suo figliuolo de un’altra villa, detta Balibo, e per paura [che] non lo
amazzassimo, subito ne dette sei bufali, cinque capre e due porci, e per compire lo numero de dieci
porci e dieci capre, ne dette uno bufalo, perchè così gli avevamo dato taglia. Poi li mandassimo in
terra contentissimi con tela, panni indiani de seta e de bambaso, accette, cortelizi indiani, forbici,
specchi e coltelli.
Quel signore, a cui andai a parlare, teneva solum femmine che lo servivano. Tutte vanno nude
come le altre; e portano attaccate a le orecchie schione piccole de oro con fiocchi de seta pendenti, e
ne li bracci hanno molte maniglie de oro e de lattone fino al cubito. Li uomini vanno come le
femmine, se non [che] hanno attaccato al collo certe cose de oro, tonde come un tagliere, e pettini de
canne adornati con schione de oro poste ne li capelli; e alcuni de questi portano colli de zucche
secche posti ne le orecchie per schione de oro.
In questa isola se trova lo sandalo bianco, e non altrove; zenzero, bufali, porci, capre, galline,
riso, fichi, canne dolci, aranci, limoni, cera, mandorle, fagioli e altre cose, e pappagalli de diversi
colori. Da l’altra parte de l’isola stanno quattro fratelli, che sono li re de questa isola. Dove stavamo
noi erano ville e alcuni principali de quelle. Li nomi de le quattro abitazioni de li re sono questi:
Oibich, Lichsana, Suai e Cabanaza. Oibich è la maggiore: in Cabanaza, siccome ne fu detto, si trova
molto oro in uno monte; e comperano tutte le sue cose con pezzetti de oro. Tutto lo sandalo e la
cera, che contrattano quelli de Giava e de Malacca, contrattano da questa banda. Aqui trovammo
uno giunco de Luson venuto per mercatandare sandalo.
Questi popoli sono Gentili e quando vanno a tagliare lo sandalo, come loro ne dissero, se li
mostra lo demonio in varie forme e gli dice, se hanno bisogno de qualche cosa, glie la domandino;
per la quale apparizione stanno infermi alquanti giorni.
Lo sandalo si taglia a un certo tempo de la luna, perchè altramente non sarebbe buono. La
mercanzia, che vale quivi per lo sandalo, è panno rosso, tela, accette, ferro e chiodi. Questa isola è
tutta abitata e molto lunga, da levante a ponente, e poco larga, da mezzodì a tramontana. Sta de
latitudine al polo Antartico in dieci gradi, e cento e sessantaquattro gradi e mezzo di longitudine de
la linea de la repartizione, e se chiama Timor. In tutte le isole [che] avemo trovato in questo
arcipelago regna lo mal de San Iop e più quivi, che in altro luogo e lo chiamano for franchi, cioè
mal portoghese.
Lungi una giornata di qui, tra il ponente e il maestrale, ne fu detto trovarsi un’isola, ne la quale
nasce assai cannella, e se chiama Ende. El suo popolo è Gentile e non hanno re; e come sono a la
medesima via molte isole, una dietro l’altra, insino a Giava Maggiore e al Capo di Malacca, li nomi
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de le quali sono questi: Tanabutun, Crenochile, Bimacore, Arauaran, Main, Zumbava, Lamboch,
Chorum e Giava Maggiore. Questi popoli non la chiamano Giava, ma Giaoa. Le maggiori ville che
sono in Giava sono queste: Magepahor (il suo re quando viveva era maggiore de tutte queste isole e
chiamavase raià Pathiunus), Sunda (in questa nasce molto pevere); Daha, Dama, Gaghiamada,
Minutarangan, Cipara, Sidain, Tuban, Cressi, Cirubaia e Balli. E come Giava Minore essere la isola
di Madura, e stare appresso Giava Maggiore mezza lega.
Come ne dissero, quando uno uomo de li principali de Giava Maggiore muore, se brucia lo
suo corpo: la sua moglie più principale adornasi con ghirlande de fiori e fassi portare da tre o
quattro uomini sovra uno scanno per tutta questa villa, e ridendo e confortando li suoi parenti, che
piangono, dice: non piangete, perciò [che] me ne vado questa sera a cenare col mio marito e dormire
seco in questa notte. Poi è portata al fuoco, dove se brucia lo suo marito, e lei voltandosi contro li
suoi parenti e confortandoli una altra fiata, se getta nel fuoco, ove brusa lo suo marito. E se questo
non facesse, non saria tenuta donna da bene, nè vera moglie del marito morto.
E come li giovani de Giava, quando sono innamorati de qualche gentil donna, se legano certi
sonagli con filo tra il membro e la pellicina, e vanno sotto le finestre de le sue innamorate, e facendo
mostra de orinare e squassando lo membro, suonano con quelli sonagli e fin tanto che le sue
innamorate odono lo suono. Subito quelle vengono giù e fanno suo volere, sempre con quelli
sonaglietti, perchè loro donne si pigliano gran spasso a sentirsi sonare de dentro. Questi sonagli
sono tutti coperti e più se coprono più suonano.
Il nostro piloto più vecchio ne disse come in una isola detta Ocoloro, sotto de Giava
Maggiore, in quella trovasi se non femmine: e quelle impregnarse de vento, e poi quando
partoriscono, se il parto è maschio, lo ammazzano; se è femmina lo allevano, e se uomini vanno a
quella sua isola, loro ammazzarli purchè possano.
Anco ne dissero, che sotto Giava Maggiore, verso la tramontana, nel golfo de la Cina, la quale
li antichi chiamano Signo Magno, trovarsi un arbore grandissimo nel quale abitano uccelli detti
garuda, tanto grandi che portano un bufalo e uno elefante al luogo ove è l’arbore, chiamato
puzathaer e lo arbore campangaghi, el suo frutto buapangaghi, el quale è maggior che una anguria.
Li Mori de Burne, [che] avevamo nelle navi, ne dissero loro averlo veduto, perchè lo suo re
[ne] aveva due, mandatigli dal re del Siam; niun giunco nè altra barca da tre o quattro leghe se può
approssimare al luogo de l’arbore per le grandi rivoluzioni di acqua, che sono circa questo. La prima
fiata che se seppe de questo arbore fu un giunco spinto da li venti nella rivoluzione, il quale tutto se
disfece; tutti li uomini se annegorono, eccetto uno tutto piccolo, il quale, essendo attaccato sopra
una tavola, per miracolo fu spinto a presso questo arbore, e montato sovra lo arbore, non
accorgendose, se mise sotto l’ala a uno de quelli uccelli. Lo giorno seguente, lo uccello andando in
terra e avendo pigliato un bufalo, il putto venne de sotto a la ala al meglio [che] potè: per costui se
seppe questo; e allora conobbero quelli popoli vicini li frutti [che] trovavano per il mare essere de
questo arbore.
Il capo de Malacca sta in un grado e mezzo all’Antartico. A l’oriente de questo capo, a longo la
costa, se trovano molte ville e cittade. Li nomi de alcune sono questi: Cingapola, che sta nel capo,
Pahang, Calantan, Patani, Bradlun, Benam, Lagon, Cheregigaran, Tumbon, Prhan, Cui, Brabri,
Bangha, India (questa è la città dove abita il re de Siam, el quale chiamasi Siri Zacabedera),
Iandibun, Lanu e Langhon Pifa. Queste cittade sono edificate come le nostre e soggette al re del
Siam.
In questo regno de Siam, ne le rive de li fiumi, sì come ne fu detto, abitano uccelli grandi, i
quali non mangeriano de alcuno animale morto sia portato ivi, se prima non viene uno altro uccello
a mangiargli il core; e poi loro lo mangiano.
Dopo Siam se trova Camogia; il suo re è detto Saret Zacabedera; e Chiempo, el suo re raià
Brahaun Maitri.
In questo loco nasce lo reobarbaro e se trova in questo modo: se acaodunano venti o
venticinque uomini insieme e vanno dentro ne li boschi: quando è venuta la notte, montano sovra li
arbori, sì per sentire l’odore del reobarbaro, come anche per paura dei leoni, elefanti e altre fiere; e
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da quella parte dove è lo reobarbaro il vento li porta l’odore; poi, venuto lo giorno, vanno in quella
parte, dove li è venuto il vento e lo cercano fin tanto [che] lo trovano. Lo reobarbaro è uno albero
grosso putrefatto; e se non fosse così putrefatto non darebbe lo odore. Il migliore di questo arbore è
la radice: niente di meno il legno è reobarbaro, el qual chiamano calama.
Poi se trova Cochi: il suo re è detto raià Scribum Pala. Dopo questo se trova la Gran China. El
suo re è maggiore de tutto il mondo; e chiamasi Santoha raià, il quale tiene settanta re da corona
sotto di sè, alcuni de li quali hanno dieci o quindici re de sotto sè. El suo porto è detto Guantan.
Fra le altre assaissime cittade ne ha due principali, dette Namchin e Combahu, ne le quali sta
questo re. Tiene quattro suoi principali appresso lo suo palazzo, uno verso el ponente, l’altro al
levante, l’altro a mezzodì e l’altro a la tramontana. Ognuno de questi dànno udienza se non a quelli
che veneno da sua parte. Tutti li re e signori de la India Maggiore e Superiore obbediscono a questo
re, e per segnale che siano suoi vassalli, ciascuno ha in mezzo della sua piazza uno animale scolpito
in marmore, più gagliardo che il leone e chiamasi chinga. Questo chinga è lo sigillo del detto re de
China, e tutti quelli che vanno a la China convieneno avere questo animale scolpito in cera in un
dente de elefante, perchè altramente non potriano entrare nel suo porto.
Quando alcuno signore è inobbediente a questo re, lo fanno scorticare e seccano la pelle al
sole con sale e poi la empiono de paglia o de altro; e lo fanno stare col capo basso e con le mani
giunte sovra lo capo in uno luogo eminente ne la piazza, acciò allora si veda colui far zonghu, cioè
reverenza.
Questo re non se lascia vedere da alcuno; e quando lui vuole vedere li sui, cavalca per il
palazzo uno pavone fatto maestralmente, cosa ricchissima, accompagnato da sei donne de le sue più
principali, vestite come lui, finchè entra in uno serpente chiamato nagha, ricco quanto altra cosa si
possa vedere, il quale è sopra la corte maggiore del palazzo. Il re e le donne entrano subito acciò lui
non sia conosciuto fra le donne; vede li suoi per uno vetro grande che è nel petto del serpente. Lui e
le donne se ponno vedere, ma non si può discernere quale è lo re. Costui se marita con le sue sorelle,
acciò lo sangue reale non sia mischiato con altri.
Circa lo suo palazzo sono sette cerchie de muri; e fra ogni una de queste cerchie stanno dieci
mila uomini, che fanno la guardia al palazzo fin che suona una campana: poi veneno dieci mila altri
per ogni cerchia, e così se mutano ogni giorno e ogni notte.
Ogni cerchia de muro ha una porta: ne la prima lì sta un uomo, con uno granfione in mano,
detto satu horan con satu bagan; nella seconda un cane, detto satu hain; nella terza un uomo con una
mazza ferrata, detto satu horan cum pocum becin; ne la quarta un uomo con un arco in mano, detto
satu horan con anac panan; nella quinta un uomo con una lancia, detto satu horan con tumach; ne la
sesta un leone, detto satu houman; nella settima due elefanti bianchi, detti due gagia pute.
In questo palazzo ci sono settantanove sale, dove stanno se non donne che servono al re, e lì
sono sempre torcie accese; si tarda un giorno a cercare questo palazzo. In cima de questo ci sono
quattro sale, dove vanno alcune volte li principali a parlare al re. Una è ornata di metallo, così de
sotto come de sopra; una tutta d’argento; una tutta de oro e l’altra de perle e pietre preziose. Quando
li suoi vassalli li portano oro o altre cose preziose per tributo, le buttano per queste sale dicendo:
questo sia ad onore e gloria del nostro Santoha raià. Tutte queste cose e molte altre di questo re ne
disse uno Moro; e lui averle vedute.
La gente de la China è bianca e vestita; e mangiano sovra tavole come noi e hanno croce, ma
non si sa perchè le tengono.
In questa China nasce lo muschio: il suo animale è un gatto come quello del zibetto, e non
mangia altro se non un legno dolce, sottile come li diti, chiamato chamaru. Quando vòleno fare lo
muschio, attaccano una sansuga al gatto e glie la lasciano attaccata in fin [che] sia ben piena de
sangue; poi la struccano in uno piatto e mettono il sangue al sole per quattro o cinque giorni; poi lo
bagnano con orina e il mettono altre tante fiate al sole; e così diventa muschio perfetto. Ognuno che
tiene de questi animali conviene pagare uno tanto al re. Quelli pezzetti, che pareno sian grani de
muschio, sono de carne de agnello pestatagli dentro: il vero muschio è se non il sangue, e se ben
diventa in pezzetti, se disfa. Al muschio e al gatto chiamano castori e alla sansuga lintra.
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Seguendo poi la costa de questa China, se trovano molti popoli, che sono questi: li Chienchii e
stanno in isole, ne le quali nascono perle e cannella; li Lechii in terra ferma; sopra lo porto de questi
traversa una montagna, per la quale se convien desarborare tutti li giunchi e navi [che] voleno
intrare nel porto. Il re Moni in terra ferma: questo re ha venti re sotto di sè ed è obbediente al re
della China: la sua città è detta Baranaci: quivi è il Gran Cathajo orientale.
Han, isola alta e frigida, dove se trova metallo, argento, perle e seta; il suo re chiamase raià
Zotru; Mliianla; il suo re è detto rajà Chetisuqnuga; Gnio lo suo re rajà Sudacali; tutti questi tre
luoghi sono frigidi e in terra ferma; Triaganba, Trianga, due isole nelle quali vengono perle, metallo,
argento e seta; il suo re rajà Rrom: Bassi-Bassa, terra ferma; e poi Sumdit Pradit, due isole
ricchissime de oro, li uomini de le quali portano una gran schiona de oro ne la gamba sovra il piede.
Appresso quivi, ne la terra ferma, in certe montagne stanno popoli che ammazzeno li sui padre e
madre quando sono vecchi, acciò non se affaticano più.
Tutti li popoli de questi luoghi sono Gentili.
Marti de notte, venendo al mercore, a undici de febbraro 1522, partendone de la isola de
Timor se ingolfassemo nel mare grande, nominato Lant Chidot; e pigliando lo nostro cammino tra
ponente e garbin; lasciassemo a la mano dritta a la tramontana, per paura del re de Portogallo, la
isola Zamatra, anticamente detta Taprobana, Pegù, Bengala, Uriza, Chelin, ne la quale stanno li
Malabari sotto il re di Narsingha; Calicut sotto lo medesimo re; Cambaia ne la quale sono li
Guzerati, Cananor, Goa, Ormus e tutta l’altra costa de la India maggiore.
In questa India maggiore vi sono sei sorte de uomini: Nairi, Panichali, Iranai, Pangelini,
Macuai e Polcai, Nairi sono li principali, Panichali sono li cittadini: queste due sorte de uomini
conversano insieme; Iranai coglieno lo vino de la palma e li fichi; Pagelini sono li marinari; Macuai
sono li pescatori; Poleai seminano e colgono lo riso. Questi abitano sempre ne li campi; mai entrano
in città alcuna, e quando se li dà alcuna cosa, la se pone in terra, poi loro la pigliano. Costoro
quando vanno per le strade, gridano: po! po! po!, cioè “guàrdate da me”. Accadette, sì come ne fu
riferito, uno Nair esser tocco per disgrazia da un Poleo, per il che el Nair subito se fece ammazzare,
acciò non rimanesse con quel disonore.
E per cavalcare lo Capo de Bona Speranza stessemo sovra questo capo nove settimane con le
vele ammainate per lo vento occidentale e maestrale per prora e con fortuna grandissima; il qual
capo sta de latitudine in trentaquattro gradi e mezzo e mille e seicento leghe lungi dal capo di
Malacca, ed è lo maggiore e più pericoloso capo [che] sia nel mondo.
Alcuni de li nostri, ammalati e sani, volevano andare a uno luogo dei Portoghesi, detto
Monzambich, per la nave che faceva molta acqua, per lo freddo grande e molto più per non avere
altro da mangiare, se non riso e acqua, per ciò [che] la carne [che] avevamo avuta, per non avere
sale, se era putrefatta.
Ma alcuni de li altri, più desiderosi del suo onore, che de la propria vita, deliberarono, vivi o
morti, volere andare in Spagna.
Finalmente, con lo aiuto de Dio, a sei di maggio passassemo questo capo, appresso lui cinque
leghe. Se non l’approssimavamo tanto, mai lo potevamo passare. Poi navigassemo al maestrale due
mesi continui senza pigliare refrigerio alcuno. In questo poco tempo ne morsero venti uno uomo.
Quando li buttavamo in mare, li Cristiani andavano nel fondo con lo volto in suso e li Indii sempre
con lo volto in giù. E se Dio non ne concedeva buon tempo, tutti morivamo de fame. Al fine,
costretti dalla grande necessità, andassemo a le isole de Capo Verde.
Mercore, a nove de iulio, aggiungessemo a una de queste, detta Santo Iacopo e subito
mandassemo lo battello in terra per vittuaglia, con questa invenzione de dire a li Portoghesi come ne
era rotto lo trinchetto sotto la linea equinoziale, benchè fosse sopra lo Capo de Buona Speranza; e
quando lo conciavamo il nostro capitano generale con le altre due navi essersi andato in Spagna.
Con queste buone parole e con le nostre mercadanzie avessimo due battelli pieni de riso.
Commettessimo a li nostri del battello, quando andarono in terra, [che] domandassero che
giorno era: me dissero come era a li Portoghesi giove. Se meravigliassemo molto perchè era
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mercore a noi; e non sapevamo come avessimo errato: per ogni giorno, io, per essere stato sempre
sano, aveva scritto senza nissuna intermissione. Ma, come dappoi ne fu detto, non era errore; ma il
viaggio fatto sempre per occidente e ritornato a lo stesso luogo, come fa il sole, aveva portato quel
vantaggio de ore ventiquattro, come chiaro se vede. Essendo andato lo battello in terra un’altra volta
per riso, furono ritenuti tredici uomini con lo battello, perchè uno de quelli, come dappoi sapessimo
in Spagna, disse a li Portoghesi come lo nostro capitano era morto e altri, e che noi non andare in
Spagna.
Dubitandone da esser anco noi presi per certe caravelle, subito se partissemo.
Sabato, a sei de settembre 1522, intrassemo nella baia de San Lucar, se non disdotto uomini e
la maggior parte infermi. Il resto, de sessanta che partissemo da Maluco, chi morse per fame, chi
fuggitte nell’isola di Timor, e chi furono ammazzati per suoi delitti.
Dal tempo che se partissemo de questa baia fin al giorno presente avevamo fatto quattordici
mila e quattrocento e sessanta leghe e più, compiuto lo circolo del mondo, dal levante al ponente.
Luni, a otto de settembre, buttassemo l’ancora appresso al molo de Siviglia e descaricassimo tutta
l’artiglieria.
Marti, noi tutti, in camicia e discalzi, andassemo con una torcia in mano, a visitare il luogo di
Santa Maria de la Victoria e de Santa Maria de l’Antiqua.
Partendomi da Siviglia, andai a Vagliadolid, ove appresentai a la sacra maestà de don Carlo,
non oro nè argento, ma cose da essere assai apprezzate da un simil signore. Fra le altre cose li detti
uno libro, scritto de mia mano, de tutte le cose passate de giorno in giorno nel viaggio nostro. Me ne
partii de lì al meglio [che] potei; e andai in Portogallo e parlai al re don Giovanni de le cose [che]
aveva vedute. Passando per la Spagna venni in Franza; e feci dono de alcune cose de l’altro emisfero
a la madre del cristianissimo re don Francesco, madama la reggente. Poi me ne venni ne la Italia,
ove donai per sempre me medesimo e queste mie poche fatiche a lo inclito e illustrissimo signor
Filippo de Villers Lisleadam, gran maestro de Rodi dignissimo.
Il cavalier ANTONIO PIGAFETTA

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